Era il 1952 quando all’allora re Abdulaziz vietò la vendita di alcolici in Arabia Saudita dopo che uno dei suoi figli, il principe Mishari, aveva ucciso, da ubriaco, con un colpo di pistola il vice-console britannico Cyril Ousman durante una lite. Sono passati più di settanta anni e nei giorni scorsi il divieto è stato parzialmente rimosso nel regno con l’apertura del primo negozio in cui sarà possibile vendere e somministrare alcolici. Ma l’apertura non riguarda tutti. Vi si potranno recare solamente i diplomatici non mussulmani, i quali dovranno previamente scaricare l’app Diplo a cui registrarsi.
Insomma, la liberalizzazione non riguarderà i comuni sudditi. In Arabia Saudita l’alcool è vietato, in quanto “haram”, illegale per la legge islamica. A cosa di deve il cambio di passo voluto dal principe ereditario Mohammed bin Salman? Alla “Vision 2030”, svelata nel 2016 e che punta a diversificare l’economia domestica per renderla quanto più autonoma possibile dal petrolio entro la fine di questo decennio.
Vision 2030 centrale per il cambiamento nel regno
Vision 2030 è un insieme di centinaia di micro-riforme, che nel complesso stanno svecchiando il regno. Ad esempio, alle donne è stato consentito nuovamente di guidare l’auto, di uscire di casa senza un “guardiano” maschio, di andare a lavorare. In appena due anni, l’occupazione femminile risulta raddoppiata al 33%. Riaperti al pubblico anche gli stadi e i cinema dopo un divieto che durava sin dagli anni Ottanta. Ma nel caso della parziale liberalizzazione degli alcolici, la questione è stata un po’ più pratica.
I diplomatici non mussulmani avevano già il diritto di portare con sé bottiglie di vino, birra e liquori nel regno.
Verso una liberalizzazione piena per l’alcool?
In un certo senso, questa liberalizzazione ristretta al personale diplomatico non mussulmano garantirebbe all’Arabia Saudita di monitorare meglio i consumi di alcolici e di colpirne il mercato nero. Non sono in pochi a credere che si tratti del primo passo verso una liberalizzazione più completa, cioè che finirà per riguardare tutti i 32 milioni residenti nel regno. Ad esempio, si specula che l’alcool non sarà vietato a Neom, la città futuristica che sta per essere costruita nel deserto per un mega-costo di 500 miliardi di dollari. A parte voler essere una sorta di paradiso finanziario, essa punta ad attirare i capitali stranieri, sottraendo l’area urbana all’osservanza delle rigide norme della Sharia.
Le autorità stanno imbattendosi, però, nella disapprovazione di una fetta non così minoritaria dell’opinione pubblica. I sauditi sono perlopiù mussulmani molto osservanti e intravedono in molti casi in queste misure una perdita della propria identità. Ad oggi, chi tra loro vuole consumare alcolici, prende un aereo e si dirige in qualche paese vicino, magari a Dubai. Ma il principe Mohammed bin Salman punta proprio a colmare il gap venutosi a creare negli ultimi decenni con i vicini del Golfo Persico, percepiti dal resto del mondo più progressisti e, pertanto, mete più ambite sia per andarci anche solo come turisti, sia per risiederci per aprire un’attività o lavorare.
L’Arabia Saudita punta su sport e grandi eventi
L’Arabia Saudita ospiterà Expo 2030 e ha mancato per un soffio i mondiali di calcio nello stesso anno. Anche approfittando delle critiche sulle modalità di organizzazione dei mondiali nel 2022 nel Qatar, Riad ha compreso che l’opinione pubblica mondiale resta scettica sul grado di ospitalità dei paesi mussulmani nei confronti di chi ha usi e costumi molto più liberi. Ed ecco che sta superando gradualmente tutte quelle proibizioni che sembravano inamovibili e che, invece, stanno cadendo l’una dopo l’altra per dare un’immagine più moderna e aperta del regno.
Anche a tale fine stanno servendo gli ingenti investimenti nello sport, dal tennis al calcio, passando per la Formula Uno. Il principe vuole che l’Arabia Saudita sia associata al divertimento, alla spensieratezza, che il mondo ne tragga un’immagine assai diversa da quella austera e piena di restrizioni a cui ancora la lega. I critici definiscono questa politica “sportwashing”, ossia il tentativo di far dimenticare le ripetute violazioni dei diritti umani che non sarebbero affatto venute meno con la Vision 2030. Sarà, ma oggi le donne saudite sono più libere di soltanto 5-6 anni fa. Negarlo non ci offrirebbe uno spaccato esatto dei cambiamenti in atto in uno degli attori geopolitici più centrali del pianeta.