In Svezia si va in pensione a 61 anni senza problemi. Ma si può scegliere di lavorare fino a 67 anni. Lo Stato riesce tranquillamente a garantire ai pensionati una rendita commisurata alle aspettative di vita che sono in linea con quelle dell’Italia. Nessun problema di bilancio, nessuna riforma da fare.
In Italia, invece, si va in pensione di vecchiaia a 67 anni o con 42 anni e 10 mesi di contributi (regole Fornero). Le pensioni anticipate sono una eccezione, un peso enorme per le casse dello Stato, e ogni tentativo di riforma va a sbattere proprio contro le esigenze di bilancio.
Le pensioni in Svezia e in Italia
Cosa non funziona da noi che invece funziona bene in Svezia? Per rispondere a questa domanda bisogna tornare indietro di 26 anni, ai tempi della riforma Dini. L’Italia, insieme alla Svezia, fu il primo Paese europeo a introdurre il sistema di calcolo contributivo delle pensioni.
Un passo sicuramente importante per la sostenibilità dei conti e per garantire una pensione dignitosa a tutti in futuro. Ma fu commesso un terribile errore dal governo Dini, cioè quello di far entrare a regime il sistema di calcolo contributivo col tempo. Per l’appunto bisognerà aspettare ancora più di una decida d’anni prima di apprezzare questi benefici.
In Svezia, invece, il sistema di calcolo contributivo fu introdotto nel 1997 di punto in bianco, senza tante tergiversazioni. Da allora non esiste più un sistema di calcolo misto per le pensioni, come da noi, e il sistema pensionistico svedese è diventato un modello per molti.
Il modello svedese
In Italia, insomma, si sono fatte le cose a metà. L’applicazione del modello svedese è stato molto graduale, tanto che ancora oggi, dopo 26 anni dalla riforma Dini (e ben 25 provvedimenti di modifica), le pensioni sono calcolate con il metodo misto.
Il che comporta un esborso enorme per le casse dello Stato impedendo ai governi di avanzare proposte sostenibili per le uscite anticipate.
In Svezia, i pensionati, non solo hanno vitalizi interamente calcolati col sistema contributivo (55-60 per cento della retribuzione media), ma anche pensioni complementari da più di 10 anni. Da un lato la previdenza professionale pagata dal datore di lavoro, dall’altra la previdenza privata con benefici fiscali per i contribuenti.