Con la ripresa dell’attività parlamentare si avvicina anche la riforma pensioni. O meglio, la fine di quota 100 al posto della quale si sta cercando una soluzione (in pensione a 63 anni?) per evitare lo scalone con le regole della Fornero.
Per molti lavoratori che avranno i requisiti anagrafici (62 anni) e contributivi (38 anni) previsti da quota 100, dal 2022 si aprirà uno scenario nuovo. In assenza di novità, ci sarà un salto di 5 anni prima di accedere alla pensione.
Fine quota 100 e rischio ritorno alla Fornero
Un dramma sociale per molti e che le forze politiche al governo e le parti sociali stanno cercando di impedire, anche per evitare che si crei un’altra grana di esodati da dover poi gestire.
La soluzione quale sarebbe quindi? Esperti di previdenza ed economisti sanno benissimo che il governo ha le mani legate (da Bruxelles) e se quota 100 non sarà riproposta, altre forme di pensionamento anticipate non potranno vedere la luce tanto allegramente.
Così, per andare in pensione a 63 anni l’unica soluzione è quella di introdurre una flessibilità in uscita, come anche proposto più volte dal presidente dell’Inps Pasquale Tridico. Vale a dire una pensione in due fasi: l’uscita a 62-63 anni di età con pagamento della pensione per la sola parte contributiva a cui si aggiungerebbe una seconda parte retributiva al compimento dei 67 anni.
In pensione a 63 anni ma con meno soldi
L’alternativa sarebbe quella di approvare una riforma che preveda la possibilità di andare pensione a 63 anni, ma solo col sistema di calcolo contributivo. Si ricalcherebbe lo schema adottato per opzione donna e così il sistema sarebbe sostenibile nel tempo.
Ciò comporta, ovviamente, una penalizzazione dell’importo di pensione, esattamente come avviene per opzione donna, anche se con impatto economico minore considerando il requisito anagrafico.
Sarebbe anche un modo per ridurre le disparità di trattamento fra le pensioni contributive e le pensioni “miste”. Allo stesso tempo l’uscita anticipata sarebbe consentita solo se la pensione non fosse inferiore a 1.000 euro al mese, il doppio del trattamento minimo.