L’inflazione è tornata ad alzare la testa, seminando paure che si pensavano ormai scomparse definitivamente presso le economie avanzate. Se fino a pochi mesi fa, si ragionava ancora sul rischio deflazione, adesso sono i rincari eccessivi dei prezzi al consumo a preoccupare governi e banche centrali. E sui mercati finanziari ci si guarda intorno per capire su quali asset puntare con la reflazione in corso.
In teoria, ci gireremmo tutti a guardare subito all’oro, asset che da millenni assolve egregiamente al compito di preservare il potere d’acquisto.
Contro l’inflazione scudi migliori dell’oro
In questo trentennio, quindi, ha offerto un rendimento (in dollari) del 390%. Su base annua, parliamo di un pregevole 5,4%. Non è affatto poco, anzi ha più che doppiato i livelli d’inflazione medi negli USA, pari al 2,5% nel periodo considerato. Tuttavia, altri asset hanno fatto meglio nel periodo considerato. Ad esempio, l’indice S&P 500 è salito negli ultimi 30 anni del 1.030%, pari a un rendimento medio annuo di circa l’8,4%. Il margine di tutela dall’inflazione è stato, quindi, del 6%. E non stiamo considerando le cedole distribuite dalle società quotate.
Persino i bond hanno fatto meglio dell’oro. Chi avesse acquistato nell’ottobre del 1991 un Treasury a 30 anni, avrebbe portato a caso un rendimento lordo annuo del 7,8%, oltre il triplo dell’inflazione americana. A ben vedere, la distanza con i rendimenti azionari non sarebbe stata così eclatante. Riepilogando, l’oro ha certamente protetto i capitali dall’inflazione, ma meno di azioni e obbligazioni.
Certo, questi rendimenti sembrano davvero poca roba a confronto di quelli esitati dai nuovi asset dell’ultimo decennio: le “criptovalute”. Ad esempio, Bitcoin si è apprezzato in appena 2 anni e mezzo quanto le azioni USA in 30 anni. E negli ultimi 5 anni, ha registrato una crescita media del 145%. Altro che scudo contro l’inflazione! Ma stiamo parlando di una categoria ancora dalla storia quasi inesistente, molto esposta alla volatilità e sulle cui prospettive future esistono forti differenze di vedute tra analisti e investitori.