Il petrolio è salito fin sopra 90 dollari al barile dopo che Arabia Saudita e Russia hanno procrastinato i rispettivi tagli dell’offerta fino alla fine dell’anno. Una mossa che rischia di frustrare le principali banche centrali, intente sin dallo scorso anno a combattere l’alta inflazione. Con il greggio tornato ai massimi dal novembre scorso, lo scenario di una stagflazione si fa più concreto. Si renderanno verosimilmente necessari altri aumenti dei tassi di interesse per stabilizzare i prezzi al consumo, ma con l’effetto collaterale di mandare le economie in recessione.
Arabia Saudita e Stati Uniti ai ferri corti
Dietro alle mosse di Riad vi sono tensioni geopolitiche molto forti con gli Stati Uniti. Da quando alla Casa Bianca c’è il presidente Joe Biden, il principe Mohammed bin Salman si rifiuta persino di rispondergli al telefono. Il primo aveva definito “stato paria” il regno saudita durante la campagna elettorale, in riferimento al barbaro assassinio del giornalista Jamal Khashoggi.
In realtà, ci sono cause più pregnanti di attrito. L’amministrazione Biden punta ad accelerare il processo di decarbonizzazione per lottare contro i cambiamenti climatici, che in soldoni significa fare minore uso di petrolio. Una minaccia esistenziale per il Golfo Persico, il quale non a caso negli ultimi tempi si è avvicinato molto alla Cina. La seconda economia mondiale non solo è meno sensibile ai temi ambientali, ma avrà bisogno in misura crescente di energia per svilupparsi. Già oggi è prima importatrice di greggio nel mondo.
In Asia si è saldato un blocco geopolitico, che per sinteticità definiamo Brics, forse in maniera inopportuna. Di esso fa parte la Russia, che da anni è molto vicina all’Arabia Saudita e all’OPEC, collaborando con quest’ultimo dall’esterno. E la Russia è praticamente in guerra con l’Occidente sull’Ucraina.
Elezioni USA possibile spartiacque
Fintantoché queste tensioni geopolitiche resteranno forti, il rischio inflazione non potrà considerarsi del tutto rientrato. C’è un riferimento temporale a cui possiamo iniziare a guardare per carpirne l’evoluzione: le elezioni presidenziali negli Stati Uniti del novembre 2024. Tra quattordici mesi gli americani torneranno ai seggi per eleggere il nuovo capo dello stato. Mai come stavolta la differenza tra gli schieramenti sarà drastica. Da un lato ci sarà l’uscente Biden per i democratici, dall’altro con ogni probabilità il suo predecessore Donald Trump per i repubblicani. I casi giudiziari che lo coinvolgono non solo non hanno affievolito il suo consenso, ma sembrano averlo rafforzato tra l’opinione pubblica.
La polarizzazione è ai massimi di sempre. Se vincesse Trump, farebbe cessare la guerra in Ucraina raggiungendo un accordo con il nemico Vladimir Putin. E cambierebbe anche l’agenda energetica degli Stati Uniti: più trivellazioni e minori investimenti sulle fonti rinnovabili. In sostanza, una vittoria di Trump sarebbe percepita più positivamente sia a Mosca che nel Golfo Persico, semmai meno in Cina. A questo punto, i sauditi potrebbero essersi fatti due conti: Biden sarà anche impopolarissimo in patria, ma una spallata alla sua rielezione arriverebbe da una crisi dell’economia americana. Perché non assecondarla tramite il caro energia? Spingerebbe la Federal Reserve ad alzare ancora di più i tassi di interesse e l’inflazione resterebbe comunque elevata. Inoltre, ciò provocherebbe la recessione del PIL.
Rischio inflazione elevato nel medio periodo
La scommessa dei sauditi, ergo anche dei russi, consisterebbe nel danneggiare l’Occidente al punto da contribuire a un esito elettorale a Washington meno spiacevole dal loro punto di vista.
Quello che dobbiamo capire è che l’inflazione di questi mesi non è solamente il frutto di dinamiche economiche, bensì anche geopolitiche. C’è uno scontro in corso tra i detentori dei capitali (Occidente) e gli esportatori delle materie prime (Brics). I primi cercano di colpire i secondi (Russia, essenzialmente) a colpi di sanzioni finanziarie, i secondi cercano di colpire i primi con una restrizione dell’offerta di fattori indispensabili alla produzione. Solo dopo le prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti le parti addiverranno a un possibile accordo. E la vittoria dell’uno o dell’altro candidato sarà determinante per capire in quale direzione.