Sarà che la stretta sui tassi della Federal Reserve inizia a offrire qualche frutto o che le materie prime costino di meno dai picchi raggiunti nei mesi scorsi. Fatto sta che l’inflazione americana ad ottobre è scesa al 7,7% dall’8,2% di settembre e ai minimi dal febbraio scorso. Le previsioni erano per un calo meno marcato all’8%. Costi dell’energia a +17,6% e anche i generi alimentari rallentano a +10,9%. Nulla a che vedere con i rialzi del 40-45% a cui si assistiamo nell’Eurozona per i prodotti energetici.
Dollaro giù, oro su
Rallegrarsi per un’inflazione ai massimi dagli anni Ottanta può risultare un po’ eccessivo. Eppure il sentiment sui mercati è stato improntato al cauto ottimismo ieri. Alla notizia della discesa dell’inflazione americana, il T-bond a 10 anni scendeva a un rendimento di poco superiore al 3,90% e il dollaro perdeva l’1,65%. Nel frattempo, l’oro rincarava dell’1,8%, aggiungendo più di 30 dollari l’oncia e arrivando in area 1.740 dollari. E l’indice S&P 500 iniziava la seduta con un rialzo superiore al 3%.
Anche sul mercato dei contratti derivati si assisteva a un certo riposizionamento delle aspettative. Per il mese di marzo il picco atteso dei tassi FED è sceso da circa 5,35% a 5,15%. E per la fine dell’anno prossimo si scontano 2-3 tagli dei tassi da 0,25% ciascuno. Il costo del denaro al dicembre 2023 scenderebbe al 4,65%. Nel frattempo, le aspettative d’inflazione misurate dal “breakeven” a 5 anni si “raffreddavano” al 2,45%, ai minimi da tre settimane.
Inflazione americana, spread giù
Non vi è alcun dubbio che la stretta monetaria proseguirà a dicembre con un rialzo dei tassi FED dello 0,50%. E con ogni probabilità vi saranno ulteriori rialzi nei primi mesi del 2023. Ma perlomeno il rallentamento dell’inflazione americana di mezzo punto in un mese inizia a porre fine alla rassegnazione verso una possibile fase di stagflazione duratura.
A dire il vero, tanto pessimismo è giustificato dalle stesse analisi del Fondo Monetario Internazionale. Ma la FED è l’unico soggetto capace di imprimere una svolta. Essa batte i tempi delle politiche monetarie in tutto il mondo. Chi cerca di fare da sé, rischia il collasso valutario. Vedasi al riguardo il Giappone con lo yen. Non a caso, lo spread è subito crollato a 203 punti, con il rendimento del BTp a 10 anni sceso al 4,07% dal 4,30% di poco prima.
Avete capito chi comanda? Pensate davvero che i rendimenti salgano o scendano sulla base del gradimento verso il governo italiano di turno? Un’inflazione americana in discesa prospetta una stretta sui tassi FED meno severa e, a cascata, un rialzo del costo del denaro meno accentuato anche nell’Eurozona. Le condizioni monetarie improvvisamente diventano meno proibitive del previsto.
Cautela sui tassi BCE
Ma rischiamo di passare da un eccesso di pessimismo a un ottimismo smodato. E’ vero che l’inflazione americana scende, ma al 7,7%. Il target della FED è del 2%. E con un tasso di disoccupazione ancora ben sotto il 4%, il governatore Jerome Powell non avrebbe alcuna ragione (né credibilità) per fermare la stretta. Il suo rallentamento era stato già prospettato dallo stesso al board di inizio mese. Non aspettiamoci che i toni delle banche centrali cambieranno entro poche settimane. Anzi, questo sarà il momento di capitalizzare con toni e mosse da “falco”, al fine di massimizzare il “raffreddamento” delle aspettative d’inflazione.
Dopo Natale, se la discesa dell’inflazione proseguisse, i toni muterebbero. Ma per l’Eurozona potrebbe servire più tempo. Ad ottobre l’inflazione nell’area segnava il suo record storico del 10,7%, in forte accelerazione dal 9,9% di settembre.