A gennaio il tasso d’inflazione in Italia è salito al 4,8%, il dato maggiore da aprile 1996. Era al 3,9% a dicembre. Secondo l’ISTAT, l’inflazione acquisita per quest’anno è del 3,4%. Questo sarebbe il dato dell’intero 2022, nel caso in cui non si registrassero più variazioni mensili. Una batosta, considerato anche che il governo ha stimato con il DEF un rassicurante 1,5%. Il fenomeno sta riguardando un po’ tutto il pianeta. In parte, ha carattere transitorio, dipendendo dalle strozzature dell’offerta seguite alle restrizioni anti-Covid e al boom delle materie prime, a sua volta legato a una rapida risalita dei consumi non accompagnata da un altrettanto veloce aumento della produzione.
Governi e banche centrali prevedono che l’inflazione salirà fino a raggiungere il picco quest’anno per poi scendere. Più passano i mesi, però, e più questo picco si allontana nel tempo. Non è scontato che lo si abbia già entro la prima metà dell’anno. E gli effetti rischiano di materializzarsi prestissimo sui consumi. Vi spieghiamo perché. Con la legge di Bilancio, il governo Draghi ha stanziato 8 miliardi di euro per il taglio delle tasse. Essenzialmente, sarà l’IRPEF ad assorbirlo. Scendono la seconda e la terza aliquota, passate rispettivamente dal 27% al 25% e dal 38% al 35%.
Il taglio delle tasse non è stato eclatante, ma certamente ha segnato il primo passo verso la giusta direzione. Esso dovrebbe sostenere i consumi e l’occupazione, rendendo tra l’altro più appetibile il lavoro, specie oltre certe fasce di reddito. Già con la busta paga di gennaio, milioni di lavoratori hanno iniziato a verificarne i primi effetti. Tuttavia, l’inflazione sta azzerandoli. Qualche cifra ci fa capire meglio. Nel 2020, l’Italia è stato il paese europeo con la maggiore caduta dei salari, almeno tra i grandi. Abbiamo registrato un pesante -7,4% sul 2019, pari a -39 miliardi di euro.
L’inflazione si mangia il taglio delle tasse
La massa salariale è scesa nell’anno nero della pandemia sotto 490 miliardi.
Quest’anno, la speranza è che la massa salariale si riporta almeno ai livelli pre-Covid, ossia a circa 525 miliardi. Se le imprese aumentassero le retribuzioni lorde in linea con l’inflazione programmata dell’1,5% e se l’inflazione reale sarà di quel 3,4% sopra accennato riguardo al dato acquisito, i lavoratori perderebbero un altro 1,9%. Sarebbero ben 10 miliardi, 2 in più del taglio delle tasse. E, attenzione, quest’ultimo riguarda anche i redditi dei lavoratori autonomi. Dunque, il costo dell’inflazione rischia di superare il beneficio fiscale. In realtà, già partiamo da un “gap” di svariati miliardi da recuperare, per quanto detto relativamente al 2021.
Ora, è possibile e auspicabile che l’inflazione si attesti complessivamente sotto il 3,4% ipotizzato. Difficilmente, però, risulterà in linea con il tasso programmato. E guardate che non sarà neppure così scontato che i salari nel frattempo aumentino dell’1,5%. Al confronto con lo scorso anno, ciò implicherebbe un’accelerazione del 150%. La bassa occupazione affievolisce il potere negoziale dei sindacati e le imprese stanno riuscendo da molti anni a tenere basse le retribuzioni dei dipendenti. Tirando le somme, il danno provocato dall’inflazione potrà anche essere inferiore a quello temuto, ma riuscirebbe comunque a divorare gran parte, se non per intero, dei benefici conseguenti al taglio delle tasse. E la ripresa economica, che già si annuncia più lenta del +4,7% stimato dal governo – tant’è che questi ha dichiarato che si pone l’obiettivo di non scendere sotto il 4% – ne sarebbe colpita fino a tirare il freno a mano.