Ovunque, i prezzi al consumo galoppano e i tassi d’inflazione salgono ai massimi da decenni. Al 6,2% negli USA, al 4,5% in Germania, al 4,1% nell’intera Eurozona, al 4,2% nel Regno Unito. Numeri a cui non eravamo più abituati neppure a pensare. L’aspetto più preoccupante non risiede in essi, tuttavia, bensì nei tassi d’interesse ancora azzerati o persino negativi. In termini reali, negli USA non erano mai stati così bassi. In Germania, se compri un Bund a 10 anni ti ritrovi ancora un rendimento in area -0,25%.
Tutto ciò è possibile perché le banche centrali stanno rispondendo più a logiche fiscali che monetarie. Anziché difendere la stabilità dei prezzi, sono preoccupate di garantire ai governi il sufficiente consenso per tirare avanti a colpi di spesa pubblica in deficit. L’andazzo risale ormai a oltre un decennio fa, quando le economie avanzate uscirono ammaccate dalla potente crisi finanziaria del 2008-’09. Ma con la pandemia, i muri eretti una quarantina di anni fa in difesa dell’indipendenza monetaria sono stati definitivamente abbattuti.
Gli anni Settanta lasciarono in eredità tassi d’inflazione a due cifre e bassa crescita, scatenati da due crisi petrolifere. Negli anni Ottanta, due delle prime banche centrali al mondo cambiarono schema. Anziché tenere i tassi d’interesse bassi per stimolare la crescita, Federal Reserve e Banca d’Inghilterra li alzarono per combattere l’inflazione. Nel giro di pochi anni ci riuscirono. L’impatto sulle rispettive economie e sul resto del mondo fu duro. Una recessione controllata si ebbe nei primi anni Ottanta, ma grazie anche alle riforme economiche perseguite dai governi Reagan e Thatcher, furono seguiti da un lungo ciclo di crescita e stabilità dei prezzi.
Inflazione e nuovo connubio tra banche centrali e governi
Governatori centrali e ministri del Tesoro si divisero i compiti, persino in Italia con la legge sul famoso “divorzio tra Bankitalia e Tesoro“: i primi avrebbero tenuto sotto controllo i prezzi, i secondi la spesa pubblica. La politica monetaria puntò al cosiddetto “inflation targeting”, vale a dire a perseguire tassi d’inflazione più o meno espliciti, così da ancorare stabilmente le aspettative del mercato. Non è un caso se l’inflazione nel mondo avanzato abbia smesso di rappresentare una preoccupazione per lavoratori, imprese e risparmiatori da 40 anni a questa parte.
Ma l’indipendenza monetaria implica l’assenza di sostegno delle banche centrali ai governi all’occorrenza, almeno non in maniera diretta ed esplicita. Con la crisi dei mutui “subprime” si scorse il tentativo di ridurre tale indipendenza con misure non ortodosse come gli acquisti dei bond sul mercato secondario (“quantitative easing”). I tassi furono azzerati e portati in negativo spesso sui depositi overnight delle banche commerciali. Con la pandemia, il salto di qualità definitivo: tolleranza dei tassi d’inflazione sopra i target, acquisti massicci e incondizionati dei bond e tassi azzerati a lungo.
I governi stanno beneficiando di questo assoggettamento della politica monetaria ai loro desiderata, potendo fare debiti senza freni e a tassi nulli o persino sottozero. In un certo senso, dopo una separazione lunga 40 anni, si sono risposati con le rispettive banche centrali. I contribuenti apparentemente stanno raccogliendone i frutti, potendo godere sia dell’alta spesa pubblica, sia dell’assenza di aumenti dei prelievi fiscali. Ma è solo un’apparenza per l’appunto. I risparmi sono defalcati dalla perdita del potere d’acquisto, i redditi stessi in termini reali stanno diminuendo e la vita si è fatta più cara. Tutto “transitorio”, rassicurano le banche centrali, convinte che nel frattempo i loro neosposi si premurino a stringere i cordoni della borsa.