Inps, Tridico: in pensione prima con flessibilità e fondi integrativi

Per il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, la riforma delle pensioni deve passare da maggiore flessibilità in uscita e dalla previdenza complementare pubblica.
5 anni fa
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Il dibattito sulla riforma delle pensioni sta per entrare nel vivo e Pasquale Tridico non manca di dire la sua. In una lunga intervista rilasciata a Class Cnbc, il presidente dell’Inps, dopo le polemiche sulle sue ultime proposte, rilancia la sua idea per riformare il sistema pensionistico in Italia.

Sfruttare i risparmi derivanti da quota 100, introdurre un sistema di flessibilità che tenga conto dei maggiori lavori gravosi e usuranti, tutelare maggiormente il lavoro femminile e istituire fondi integrativi pubblici gestiti dall’Inps.

Queste le basi che Tridico, professore ordinario di politica economica, vorrebbe fossero gettate per poi attuare la tanto attesa riforma delle pensioni, come si evince chiaramente dalle sue dichiarazioni rilasciate ai cronisti di Class Cnbc.

Presidente Tridico, al tavolo aperto dal Governo stanno nascendo le nuove pensioni?

Questo tavolo appena partito è importante e deve dare delle risposte strutturali, in modo che non si debba metterci mano di nuovo fra qualche anno. Noi abbiamo avuto due grandi riforme delle pensioni (Dini 95 e Fornero 2011) che orientano il sistema verso il modello contributivo. Tuttavia fino al 2036 c’è un periodo di transizione per i cosiddetti misti. Il problema principale si pone per coloro che fanno dei lavori faticosi e soprattutto per le donne che, a causa di carriere più instabili e periodi fuori dal lavoro più lunghi, hanno spesso una impossibilità a raggiungere i 41 anni e 10 mesi di contribuzione per la pensione anticipata, oppure 67 anni per la vecchiaia.

Quindi qual è la sua proposta?

L’idea è quella di rendere più flessibili queste uscite, ferma restando un’età minima contributiva e anagrafica. Partendo da quella soglia si creano delle deroghe per usuranti, per gravosi, per donne. Se invece volessimo anticipare per tutti l’uscita dal lavoro, questo dovrebbe essere possibile solo passando al contributivo: cosi ciascuno avrà quello che ha versato, senza un costo per lo Stato. Opzione donna, ad esempio, oggi permette alle donne di andare via anche a 58 anni con 35 di contributi, se optano per il sistema contributivo.

Quale soglia ha in mente? Quella 102?

La soglia non c’è. Anzi il problema del modello pensionistico italiano in passato, a mio parere, sono state proprio le soglie, perché creano rigidità. Noi stiamo parlando di flessibilità, che è l’opposto della soglia. Bisogna creare vie di uscita flessibili dal mercato del lavoro, in riferimento ai diversi rapporti di lavoro.

C’è chi vorrebbe prolungare Quota 100, è un’ipotesi?

Non penso. Quota 100 si supera nel momento in cui scade, e scade alla fine del 2021. Si arriverà a un nuovo modello, probabilmente con una soglia (che ancora non è decisa, e io non ho idea di quale potrà essere), e da quella soglia si dovrebbero creare delle deroghe di uscita per gravosi, donne, usuranti. Questo è il punto.

Quanto si risparmia per l’adesione ridotta a Quota 100 ?

Nel 2019, ormai, siamo intorno a un miliardo e mezzo. Nel 2020 siamo intorno a 2,2 miliardi su 7,9 miliardi quindi un risparmio importante. E probabilmente lo stesso risparmio anche nel 2021.

Come andrebbero impiegati questi risparmi?

Siamo in un una fase debole della economia, ed è in questi momenti che l’azione del Governo deve essere più forte e incisiva. Ci sono aree di crisi in cui lo Stato deve intervenire. Ad esempio a Taranto. Se non si trovasse un nuovo investitore lo Stato dovrebbe intervenire. I soldi ci sono.

Quota 100 è stato un flop?

No, e non si deve misurare in base alla adesione. È una opzione per chi vuole uscire. Per le 150 mila persone che hanno aderito è stata un grande successo.

… Di certo non ha prodotto i tassi di sostituzione promessi con nuovi assunti

Questo è l’aspetto più controverso. Non c’è stato un tasso di sostituzione elevato, ma possiamo dire che l’occupazione non è diminuita. L’Istat e l’Inps riportano circa trecentomila nuovi posti l’anno scorso, ma non sappiamo quanti accoppiarne a Quota 100. Questo fa parte di uno studio che faremo alla fine del triennio.

Sulla sua proposta di un Fondo di Previdenza Integrativa dell’Inps è scontro aperto. Al settore privato non piace.

L’offerta previdenziale del settore privato probabilmente non è sufficiente né soddisfacente, e non ha esaurito in pieno i compiti assegnati dal legislatore. Oggi aderisce alla previdenza complementare privata una platea di lavoratori molto ridotta, intorno al 22%, prevalentemente maschi con redditi medio alti del Centronord. Chi ha redditi medio bassi non fa previdenza complementare. Quindi la previdenza privata non ha raggiunto l’obiettivo di estendere le coperture necessarie a evitare che in futuro i pensionati siano poveri via via andando verso il sistema contributivo.

E perché pensa lo possa fare l’Inps?

Un fondo integrativo gestito dall’Inps avrebbe tre vantaggi. Innanzitutto i costi. Grazie alle economie di scala di un grande ente, la gestione di questo risparmio volontario verrebbe a costare molto di meno. Oggi molti dei rendimenti creati dai fondi previdenziali vengono erosi dalle spese di gestione. Inoltre si potrebbe creare un vaso comunicante con la previdenza obbligatoria. Potremmo utilizzare questo fondo complementare per maturare i requisiti nell’obbligatorio. Per esempio, per il riscatto della laurea. Potrebbe anche essere un fondo aperto sul quale i nonni e i genitori versano sui contributi dei figli o dei nipoti. Infine, potrebbe essere un elemento importante di stabilizzazione degli investimenti nel Paese. Oggi la previdenza complementare raggiunge 167 miliardi, e per l’80% sono investiti all’estero, mentre il fondo complementare pubblico dovrebbe canalizzare gli investimenti nel Paese.

Un fondo previdenziale ha il mandato di generare i rendimenti per assicurare le prestazioni a coloro che dovranno avere una pensione in futuro. Si ottiene, non senza sforzi, con gestione professionale, diversificazione, valutazione attenta di rischi e rendimenti. Quello che lei descrive è uno strumento di politica economica, la logica è un’altra e sembra in conflitto con la prima.

Capisco questa obiezione e la ritengo anche ragionevole. Tuttavia penso che investire nel Paese, dove quei lavoratori lavorano, è altrettanto utile e necessario. Anche perché nel paese si possono diversificare gli investimenti.

E chi decide come investire?

Cassa Depositi e Prestiti è un attore che all’insegna dei principi di mercato può fare investimenti, anche diversificati, nel paese e ottenere rendimenti nella transizione tecnologia che ci sta davanti verso il Green New Deal. Dopodiché noto anche che il tfr, il cui rendimento viene regolato da leggi ed è legato appunto a una rivalutazione del pil, ha un rendimento maggiore di tanti fondi. Mi faccia dire: dobbiamo prenderci una responsabilità nel nostro Paese. Dopo 30 anni di declino di produttività, investimenti e pil, abbiamo la possibilità di canalizzare i risparmi dei lavoratori verso l’economia del Paese. So che questo vuol dire una deroga in parte a una diversificazione internazionalista degli investimenti, ma vuol dire anche una responsabilità collettiva verso gli investimenti per il futuro del Paese.

Mirco Galbusera

Laureato in Scienze Politiche è giornalista dal 1998 e si occupa prevalentemente di tematiche economiche, finanziarie, sociali

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