Iperinflazione in Venezuela finita, ma il salario minimo vale 3 dollari al mese

Iperinflazione finita nel Venezuela, dove per quattro mesi di fila già i prezzi sono cresciuti meno del 50%. Ecco com'è stato possibile e perché non c'è davvero nulla da esultare.
5 anni fa
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Per il quarto mese consecutivo, a giugno l’indice dei prezzi in Venezuela ha segnato un aumento mensile inferiore al 50%, la soglia che demarca in confine tra iperinflazione e non. Secondo l’Assemblea Nazionale, guidata dalle forze di opposizione, i prezzi sarebbero aumentati del 24,8% rispetto a maggio, giù dal 31,3% del mese precedente. Nei 12 mesi, l’inflazione accumulata sarebbe stata del 445.000%. Dunque, formalmente il Venezuela sarebbe uscito dall’iperinflazione dal marzo scorso e vi sarebbe rimasta così per circa un anno e mezzo.

Sarebbe una buona notizia per i suoi 30 milioni di abitanti, anche se non c’è niente da festeggiare. I prezzi nel paese continuano a restare proibitivi e a non avere di fatto un senso.

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Prendete il salario minimo. Il regime di Nicolas Maduro lo ha più che raddoppiato in aprile per la seconda volta quest’anno, portandolo a 4 miliardi di bolivares. Tenuto conto del tasso di cambio contro il dollaro al mercato nero, oggi varrebbe circa 3,30 dollari. Si pensi che per comprare un litro di latte, a seconda di quanto si guadagni potrebbe arrivare a servire un quinto o più dello stipendio. Ad ogni modo, com’è stata possibile la fine dell’iperinflazione? Tre i passi che il governo “chavista” ha compiuto, pur molto tardivamente e con timidezza, negli ultimi mesi, forse pressato dall’isolamento internazionale e dal caos venutosi a creare sul piano istituzionale con l’auto-proclamazione a presidente di Juan Guaido.

Nelle settimane successive al tentato colpo di stato, Caracas ha liberalizzato di fatto il tasso di cambio, consentendo al bolivar “sovrano” di essere fissato autonomamente dalle banche private e pubbliche, attraverso i cosiddetti “tavoli del cambio”, così da tenere il passo con i tassi vigenti al mercato nero. Da allora, c’è stata una svalutazione di oltre il 46% e le distanze con il cambio illegale si sono ridotte al 20%.

In sostanza, il bolivar è stato ricondotto maggiormente ai suoi fondamentali e ciò sta facendo affluire nel paese qualche dollaro in più, come segnalerebbe anche la lieve risalita delle riserve valutarie a 9,4 miliardi di dollari, pur a fronte del crollo della produzione domestica di petrolio del 30% quest’anno, a poco più di 1 milione di barili al giorno nel mese di giugno.

Iperinflazione finita, non il dramma

Al contempo, la banca centrale ha imposto alle banche riserve obbligatorie per il 57% e tassi marginali al 100%, al fine di comprimere l’offerta di moneta, causa determinante dell’esplosione dei prezzi dal 2014. Infine, pare che il governo stia adottando un approccio più prudente sul fronte fiscale, tagliando l’altissimo deficit, arrivato al 20% nel 2015. Per il resto, la fine dell’iperinflazione sarebbe dovuta alla compressione della domanda interna, conseguenza dell’incapacità per la generalità dei cittadini di acquistare beni e servizi con gli stipendi (reali) da fame che si ritrovano.

Ma non si esulti così presto. I giudici americani, ad esempio, hanno dato ragione alla società canadese Crystallex International Corp, che aveva fatto ricorso contro lo stato venezuelano per farsi risarcire di espropri per 1,4 miliardi di dollari subiti negli anni scorsi. Secondo la giustizia USA, la società ha titolo per impossessarsi di una quota di Citgo, la raffineria petrolifera di PDVSA con sede nel Texas e che fattura ogni anno 30 miliardi di dollari, trattando 750 mila barili di greggio venezuelano al giorno. Citgo, gestita da due organismi separati (uno rispondente al regime e l’altro alle forze di opposizione), rischia adesso di essere espropriata dai creditori, infliggendo un altro durissimo colpo al paese andino, che senza petrolio e la possibilità di raffinarlo, collasserebbe ancora di più di quanto non abbia già fatto. Essa ha già azioni in pegno in favore dei creditori russi di Rosneft per il 49,9% del suo capitale.

I problemi del Venezuela sono nati prima di Chavez e sempre dal petrolio

Una normalizzazione economica non appare affatto vicina. Affinché si realizzi, servirebbe che il regime desse il via a una fase di transizione democratica, così da riportare a casa parte di quei 300 miliardi di dollari di capitali, che si stima abbiano lasciato il paese negli anni per dirigersi in luoghi più sicuri. La produzione di beni e servizi non potrà tornare a salire stabilmente, in presenza di una legislazione di stampo marxista e di prezzi massimi imposti per decreto. Il Venezuela è uscito dall’iperinflazione, ma è tutt’altro che guarito. Sarebbe come se un malato avesse smesso di avere la febbre a 42 gradi e adesso il termometro segnasse 41,5.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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