Mercoledì 6 novembre, quando sin dalle prime luci dell’alba sembrò chiara e netta la vittoria di Donald Trump alle elezioni americane, in Iran il cambio con il dollaro sprofondava al nuovo record di 703.000 rial. Nel 2015, quando l’amministrazione Obama trattò e poi siglò l’accordo sul nucleare, il tasso di cambio viaggiava ancora a 32.000 rial. Nel luglio scorso, quando s’insediava il nuovo presidente riformista Masoud Pezeshkian, era già collassato a 584.000. Tanto per avere un’idea dei danni provocati dalla Repubblica Islamica all’economia domestica, prima della rivoluzione dell’ayatollah Khomeini nel 1979 il cambio era di appena 47 rial per 1 dollaro.
Teheran tra guerre e povertà
Il cambio in Iran è debole per un mix di fattori. Anzitutto, l’inflazione galoppa ancora sopra il 30% (31,2% a settembre) e i deficit di bilancio sono alti. Se il disavanzo fiscale nel 2023 chiudeva al 5,5%, per quest’anno è atteso al 5,8%. Le spese militari dovrebbero aumentare del 200% secondo il governo, al fine di consentire a Teheran di tenere testa alle sfide geopolitiche nella regione. Una misura ardua da implementare in un paese in cui il tasso di povertà è del 30%. Tagliare i servizi essenziali scatenerebbe rivolte sociali che proprio in questa fase le istituzioni islamiste non si possono permettere.
Perché il cambio in Iran è sceso ulteriormente con la vittoria di Trump? Il paese esporta in media 1,7 milioni di barili di petrolio al giorno, perlopiù alla Cina. Ufficialmente, è sotto embargo dall’Occidente per la sua politica di arricchimento dell’uranio a scopi militari. Esso era stato imposto per la prima volta dal presidente Barack Obama nel 2012 e, come detto, sospeso tre anni più tardi. Ma nel 2018 l’amministrazione Trump uscì unilateralmente dall’accordo, sostenendo che Teheran non si attenesse ai patti. Malgrado le aspettative di segno opposto, l’attuale amministrazione Biden non ha riattivato quell’accordo, ma ha chiuso gli occhi davanti alla palese infrazione dell’embargo.
Embargo allentato, ma tensioni esplose
Tra Stati Uniti e Iran c’è stato una sorta di accordo tacito: tutto deve restare ufficialmente invariato, ma nei fatti l’embargo non viene più implementato. Tant’è vero che la stessa Casa Bianca ha sbloccato i 16 miliardi di dollari (denominati in euro) che la Repubblica Islamica aveva investito all’estero per le sue riserve valutarie. Denaro, va detto, che è servito per finanziare i piani di attacco ad Israele e fomentare gli scontri nel Medio Oriente.
E’ perfettamente razionale che il mercato sconti una caduta del cambio in Iran con la rielezione di Trump. Il timore è che la futura amministrazione repubblicana, che avrà dalla sua parte anche il Congresso per almeno due anni, possa tornare a calcare la mano sulle sanzioni. Quando Trump uscì dall’accordo, le esportazioni di greggio iraniano precipitarono sotto il mezzo milione di barili al giorno. Se si tornasse a quei livelli, l’economia sarebbe privata di quasi 1,5 milioni di barili al giorno. Decine di miliardi di dollari in meno all’anno, che fanno la differenza tra la sopravvivenza e il baratro. Soldi in meno per finanziare le guerre per procura combattute tramite Hamas e Hezbollah contro Israele e sempre più persino direttamente.
Cambio Iran sconta possibile collasso economico
Tra le altre cose, la posizione di Trump sul piano geopolitica è più dura di quella del presidente uscente sull’Iran. Il primo è vicino all’Arabia Saudita, arci-nemico dell’ayatollah. Lo scambio potrebbe essere il seguente: accerchiamento Usa di Teheran contro una maggiore offerta di petrolio dell’Opec. L’organizzazione è un cartello capeggiato proprio da Riad. In questo modo, il tycoon otterrebbe prezzi dell’energia più bassi, un contributo prezioso per fare scendere l’inflazione in patria. Uno scenario da incubo per l’Iran, il cui tasso di cambio non fa che riflettere il possibile, ulteriore indebolimento dell’economia domestica.