Un’altra tegola sulla testa del presidente Joe Biden a poco più di nove mesi dalle elezioni presidenziali. Il prezzo del petrolio è tornato a salire ai massimi da due mesi, con il WTI americano a 78 dollari al barile e il Brent a circa 93. Rialzi che combaciano con le tensioni geopolitiche in atto nel Medio Oriente. Dopo la guerra tra Russia e Ucraina, che prosegue nel silenzio dei media mondiali, se ne sta combattendo una ancora più cruenta tra Israele e Hamas, mentre i ribelli Houthi nello Yemen attaccano le navi mercantili di passaggio nel Mar Rosso, sostenuti dall’Iran dell’ayatollah Khamenei.
Iran e Venezuela flop di Biden
Peccato che Iran e Venezuela fossero i due paesi su cui l’amministrazione Biden voleva fare affidamento per contenere lo strapotere saudita proprio sul petrolio. Dall’inizio del mandato nel 2021, la Casa Bianca puntava a riattivare l’accordo sul nucleare con Teheran, che era stato siglato a fine 2015 dall’amministrazione Biden e stracciato nel 2018 da Donald Trump. E nell’ottobre scorso, gli emissari di Biden si erano recati a Caracas per incontrare i rappresentanti del governo andino con l’obiettivo di alleviare le sanzioni comminate dal tycoon tra il 2018 e il 2019. Queste impediscono formalmente alla Repubblica Islamica di esportare greggio, sebbene il divieto sia ampiamente aggirato tramite potenze come la Cina.
In virtù dell’intesa, gli Stati Uniti hanno riaperto alle collaborazioni con l’industria delle estrazioni locali e stanno consentendo la riattivazione del trading dei bond sovrani sul mercato secondario, sospeso agli inizi di febbraio di cinque anni fa. Washington pensava e sperava che tale allentamento delle sanzioni portasse ad un aumento dell’offerta globale di petrolio, utile per contenerne i prezzi.
Maduro tradisce l’accordo con la Casa Bianca
Invece, la principale candidata sostenuta dagli Stati Uniti, Maria Corina Machado, è stata bandita per quindici anni dai pubblici uffici. La sua colpa è stata di avere appoggiato le sanzioni americane contro il Venezuela. Il fatto impedirebbe alle opposizioni di presentarsi con personalità credibili al voto. E cadrebbe l’impalcatura su cui si regge l’allentamento delle sanzioni a stelle e strisce, a seguito del quale i bond erano esplosi di prezzo, pur ripiegando parzialmente nelle settimane successive.
L’Iran non è da meno. Oltre a sostenere e istigare gli Houthi, finanzia e controlla Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina. Trattasi di tre milizie molto ben organizzate. Addirittura, nel caso di Hezbollah parliamo del più grande esercito non regolare al mondo. Tutte fonti di destabilizzazione geopolitica, che rendono oramai impraticabile anche solo il ritorno al dialogo per la rinegoziazione dell’accordo sul nucleare. La strategia sul petrolio di Biden è miseramente fallita. Washington si è inimicata definitivamente l’Arabia Saudita – almeno con questa amministrazione – l’unico alleato potente nel Medio Oriente, capace di influire sulle decisioni dell’OPEC, il cartello che controlla il 30% dell’offerta globale.
Petrolio USA, scorte ai minimi e produzione ai massimi
Negli ultimi mesi, la produzione di greggio negli Stati Uniti è salita ai nuovi massimi storici di 13,25 milioni di barili al giorno. Questo trend sta contenendo le quotazioni internazionali, sebbene le restrizioni ambientali varate da Biden stiano tenendo l’offerta con il freno a mano. In assenza di ulteriore crescita, il rischio per l’inquilino della Casa Bianca in cerca del secondo mandato è di andare ad elezioni con un prezzo del gallone più alto.
E da quando Biden è diventato presidente, le scorte strategiche di petrolio sono diminuite di 285 milioni di barili, scendendo ai minimi da oltre quaranta anni. Basterebbero a coprire 17 giorni di consumi contro i 36 di tre anni fa. Difficile reagire credibilmente all’eventuale impennata delle quotazioni rilasciando nuove scorte sul mercato. A meno di mettere a repentaglio la sicurezza nazionale.