L’anno che è arrivato non sta portando buone notizie all’Iran, dove si consuma giorno dopo giorno una crisi sempre più grave sul piano geopolitico ed economico. Il cambio sta collassando sotto gli occhi di una popolazione intenta a mettere in salvo i propri (pochi) risparmi. Ieri, segnava un nuovo record massimo di 817.500 rial contro 1 dollaro. Un anno fa, ne bastavano 515.000. Un crollo del 37%, che sembra avere subito un’accelerazione dalla fine di settembre, quando lo scontro con Israele è diventato più diretto con raid reciproci e l’eliminazione del leader di Hezbollah in Libano.
Crisi in Iran ricorda il Venezuela
La crisi in Iran sta assumendo le caratteristiche di quella assai grave del Venezuela nel decennio scorso, che sfociò nell’iperinflazione. E sbaglia chi crede che il fenomeno riguardi essenzialmente l’esplosione dei prezzi al consumo. Esso ha a che vedere con la definitiva perdita della fiducia dei cittadini verso lo stato. E passa particolarmente per il cambio, andando ad alimentare il mercato nero contro un tasso ufficiale ritenuto essenzialmente senza senso. E più il cambio va giù, maggiori i costi dei beni acquistati dall’estero e le limitazioni imposte dalle autorità alle importazioni. Ne conseguono una grave carenza di offerta e l’esplosione dei prezzi al consumo.
Crisi energetica, popolazione al buio
In effetti, così è da tempo anche a Teheran, dove il cambio ufficiale resta fissato al tasso irrealistico di poco più di 42.000 rial per 1 dollaro, cioè a quasi venti volte più basso del suo livello di mercato. L’ultimo dato sull’inflazione disponibile risale ad ottobre, quando era salito al 34,5% annuale. Per quanto alto, sembra ancora molto poco per parlare di deriva venezuelana. Invece, gli ingredienti ci sono tutti. Nelle scorse settimane il governo ha imposto una sorta di “lockdown” parziale per limitare i danni della crisi energetica.
Vi ricorda qualcosa? La mente torna a Caracas, dove le più alte riserve petrolifere del pianeta non riescono a garantire estrazioni minime per i consumi interni. La crisi in Iran sta assumendo altri connotati simili, come la corsa ai “safe asset”. La popolazione non cerca soltanto dollari per disfarsi di una valuta locale che non vale nulla. Punta anche sull’oro, che è un bene rifugio per eccellenza. Nei mesi scorsi, ad esempio, le monete d’oro coniate dalla banca centrale sono state acquistate sul mercato a prezzi superiori anche del 30% rispetto alle quotazioni internazionali del metallo, calcolandone la quantità contenuta.
Bitcoin nel mirino del regime
In pratica, il popolo iraniano appare disposto a pagare l’oro molto di più rispetto al resto del pianeta, evidentemente per mettersi al riparo da svalutazione del cambio e inflazione. C’è persino il sospetto che parte della crisi energetica in Iran sia causata dal “mining” di Bitcoin. Il business è fuori legge, ma le autorità credono che una comunità di “estrattori” in appartamenti privati stia utilizzando VPN, ossia una connessione che maschera gli indirizzi IP e ne rende impossibile il tracciamento. L’obiettivo sarebbe per l’appunto di emettere criptovaluta con cui garantirsi entrate dal valore di mercato crescente nel tempo.
Il problema risiede tutto nella cattiva gestione dell’economia. Il bilancio statale è gravato da ampi deficit, perlopiù a causa dei sussidi concessi alla popolazione e che tengono elevati i consumi di carburante, luce e gas. Il resto serve per finanziare l’apparato militare-burocratico sia domestico che straniero.
Crisi in Iran, timori con ritorno di Trump
I cittadini hanno tolto la fiducia al regime. Ai rial preferiscono i dollari e l’oro, non disdegnando neanche Bitcoin. La crisi in Iran rischia di aggravarsi se l’amministrazione Trump decidesse di inasprire le sanzioni internazionali, colpendo le esportazioni petrolifere. Più che altro si tratterebbe di far rispettare quelle che ci sono dopo che l’amministrazione uscente di Joe Biden ha chiuso un occhio, essendo stata impegnata più sul fronte ucraino. Senza le esportazioni di greggio, Teheran resterebbe a secco di dollari e piomberebbe in una crisi definitiva di tipo fiscale, economica e finanziaria in brevissimo tempo. Ciò spiega mosse come la detenzione di Cecilia Sala, frutto più della disperazione che della forza. L’ayatollah Khamenei sa di non godere più del sostegno in patria per protrarre il conflitto con l’Occidente. E prima che torni Trump spera di ottenere qualche concessione dai suoi alleati facendo leva sulle minacce.