Italia contro UE al vertice del Consiglio per evitare l’effetto stigma, ma esiste da anni

Niente Eurobond, più morbida la posizione del Nord Europa sui cosiddetti "Recovery Bond". L'Italia resta a caccia di una soluzione per allontanare da sé la stigmatizzazione sui mercati, eppure è già una realtà di fatto.
5 anni fa
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Si tiene oggi il vertice tanto atteso del Consiglio europeo, che riunisce i capi di stato e di governo della UE. Sarà in videoconferenza, non essendo possibile la riunione fisica a Bruxelles. Dalla Germania è stata stemperata un po’ la temperatura della vigilia, con il governo tedesco a far intendere che l’evento di oggi sia solo interlocutorio. Insomma, non aspettiamoci soluzioni definitive, anche se un segnale sul percorso da tracciare andrà offerto, altrimenti la sfiducia di mercati, imprese e lavoratori verso la gestione della crisi europea monterà ai livelli di guardia.

L’Italia si presenta con un potere negoziale ridotto al lumicino. Il premier Giuseppe Conte ha ribadito l’altro ieri in Parlamento che sulla richiesta di attivazione del Meccanismo Europeo di Stabilità sarebbe presto per aprire un dibattito. Prima, ha spiegato, bisogna leggere le carte.

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La sostanza è questa: l’Italia avrà bisogno quest’anno di finanche 180 miliardi di euro netti da raccogliere sul mercato per fronteggiare il crollo stimato delle entrate e le misure per sostenere l’economia in questa fase drammatica di caduta del pil. Basta guardare al grafico dello spread per capire che presto potremmo perdere l’accesso ai mercati finanziari. Serve tagliare le emissioni di debito pubblico, chiedendo aiuto all’Europa. Ma come? L’obiettivo di Roma consiste nel far in modo che Bruxelles dia vita a meccanismi di sostegno finanziario a favore di tutti gli stati, così che non risulti agli atti che solamente l’Italia abbia bussato alla porta per ottenere denaro.

In soldoni, vogliamo evitare il famigerato “effetto stigma”, cioè il marchio di paese fallito che ci verrebbe cucito addosso sui mercati nel caso in cui emergesse che Bruxelles stesse finanziandoci. Per questo, la soluzione ideale sarebbe per noi quella degli Eurobond, emissioni di debito in comune con gli altri stati, così da sfoltire quelle nazionali e da ridurne il costo.

Germania e Olanda puntano i piedi e chiudono in maniera netta all’ipotesi. Per questo, l’alternativa a cui rimandano sarebbero gli aiuti del MES fino al 2% del pil, ma vincolati all’emergenza sanitaria, pur con la massima flessibilità offerta. Non basta, perché l’Italia avrà bisogno di ben altre cifre. Da qui, la possibile erogazione di aiuti ordinari a condizioni “leggere”.

L’Italia ha perso il suon buon nome da anni

Nemmeno questo discorso all’Italia piace, perché implicherebbe sottoporsi di fatto a un commissariamento dell’Europa con la firma di un memorandum d’intesa e venire stigmatizzati sui mercati come paese assistito, cioè tenuto finanziariamente in vita dal ventilatore polmonare di Bruxelles. Da qui, la possibile scappatoia dei “Recovery Bonds”, proposti dalla Francia e sostenuti dal Sud Europa, che consisterebbero in emissioni sovranazionali garantite dal bilancio comunitario, a sua volta rafforzato dagli stati membri. Il piano minimale sarebbe di 500 miliardi, ma si parla di arrivare fino a 1.500 miliardi. Convince poco per le modalità ancora ignote con cui verrebbero effettuate le emissioni da un lato e distribuiti i proventi agli stati dall’altro.

Il dato saliente di tutta la discussione resta come evitare la gogna all’Italia. E’ umiliante per la terza economia dell’Eurozona e membro del G7, ma di questo stiamo ragionando. C’è dell’ipocrisia in questo dibattito, perché se è verissimo che l’Italia non abbia mai saltato una scadenza verso gli obbligazionisti e non abbia ricevuto sinora alcuna assistenza finanziaria da parte della UE o del Fondo Monetario Internazionale, a differenza di Grecia, Irlanda, Portogallo e banche spagnole, come ignorare che dal 2011, con la crisi dello spread, il nostro nome sia stato accomunato a quelli di questi paesi per dare vita ai PIIGS, termine di per sé volutamente dispregiativo?

Dal 2011, quando la BCE dovette acquistare in emergenza titoli di stato anche italiani con il “Securities Markets Programme”, il buon nome dell’Italia sui mercati fu bruciato.

A dircela tutta, l’origine della crisi risale al 1992, quando la maxi-svalutazione della lira e l’esplosione della tempesta finanziaria nel nostro Paese spinse il governo Amato di allora al prelievo forzoso e successivamente al varo del primo governo tecnico della nostra storia unitaria. Ne sarebbero seguiti altri due, segno evidente del fallimento della politica. L’ingresso stesso dell’Italia nell’euro non fu scontato, perché nel 1998 i dubbi rimasero fino alla fine per via delle nostre condizioni finanziarie notevolmente peggiori rispetto ai partner dell’area.

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La diffidenza dei nostri partner europei

Da anni, il merito creditizio del debito sovrano italiano è stato tagliato a “BBB”, a 1-2 passi dal livello “spazzatura”, a cui con ogni probabilità cadremo nei mesi prossimi. L’eccezionalità negativa del Bel Paese è cristallizzata dallo spread, non solo nei confronti della Germania, quanto anche di paesi come Spagna e Portogallo, i quali vantano rendimenti lungo le rispettive curve inferiori ai nostri, e anche di molto. Insieme alla Grecia, siamo gli appestati d’Europa sul piano finanziario. La credibilità della nostra classe politica risulta all’estero di gran lunga peggiore di quella greca, per quanto il potere negoziale insito nelle dimensioni della nostra economia spesso ci faccia illudere di essere su un piano diverso di quello di Atene.

Il solo fatto che ci sbattano la porta in faccia sugli Eurobond, chiarendoci che nessuno stato che si consideri fiscalmente virtuoso voglia avere a che fare con noi, diffidando della gestione “allegra” dei conti pubblici e della nostra capacità di riformarci, la dice assai lunga su cosa sia rimasto sul piano politico e finanziario del buon nome dell’Italia.

La difesa d’ufficio affidata – ironia della sorte – all’autoproclamatosi “avvocato del popolo” sarà oggi vacua, come le idee che Roma farà pervenire sul tavolo virtuale delle trattative e che si concentrano tutte sul trovare un escamotage per farci mantenere da altri in questa fase assai critica e sfortunata per la congiuntura internazionale.

Ma se ci siamo ritrovati senza sufficienti posti letto in ospedale, senza mascherine, senza tamponi e con un sistema sanitario rivelatosi inaspettatamente incapace di fronteggiare un’emergenza, malgrado l’enorme incidenza della spesa pubblica sul pil, di certo non è stata colpa né dei cattivi tedeschi, né degli antipatici olandesi. Abbiamo esaurito ogni argomento per difenderci nelle sedi europee e adesso, con la sola forza della disperazione, rimaniamo aggrappati all’illusione che nessuno voglia vederci sprofondare, per cui prima o poi qualcosa dovranno concedercela. Ma i pasti gratis non esistono. Non è questione di bravura o meno del governo, quanto di logica, di razionalità. L’Italia è già oggetto di stigmatizzazione all’estero. E continuiamo pure a pensare che sia tutta invidia per confortarci.

Fino a quando il debito pubblico italiano può considerarsi sostenibile?

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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