Torna il balletto sulle intenzioni del governo Conte con riferimento all’uscita dell’Italia dall’euro. E a rinvigorire il dibattito ci ha pensato di nuovo il ministro delle Politiche europee, Paolo Savona, intervenendo dinnanzi alla Commissione per le Politiche UE di Camera e Senato. Cosa ha detto stavolta il ministro? Ha ribadito la sua visione ormai nota anche al grande pubblico sin dalla fine di maggio, quando il suo nome fu avanzato dal segretario della Lega, Matteo Salvini, come ministro dell’Economia, ovvero che l’Italia dovrebbe dotarsi di un piano B per studiare l’uscita ordinata dall’euro.
Il piano B di Savona per uscire dall’euro e il risiko di Salvini e Di Maio contro la UE
Non solo. Egli ha parlato anche della necessità di riformare lo statuto della BCE, dotandolo degli strumenti previsti oggi in capo ad altre banche centrali (riferimento esplicito alla Federal Reserve), consentendole tra l’altro di manovrare il tasso di cambio. Senza tale potere, ha spiegato, l’economia dell’Eurozona resterebbe esposta alle manovre degli altri istituti. E aggiunge che dell’esigenza di rivedere la governance della BCE ne parlerà con il governatore Mario Draghi a un incontro atteso in questi giorni.
Come leggere le ultime dichiarazioni del ministro Savona? Sin troppo semplice ipotizzare che siano il frutto di un suo euro-scetticismo latente, anche perché nel corso del medesimo discorso, egli ha avuto modo di soffermarsi sulle modalità per giungere a una maggiore integrazione nella UE.
La ragione del piano B
Savona ha colto nel segno, quando ha chiarito ieri che non sarà l’Italia a lasciare l’euro – o almeno, il governo attuale non avrebbe alcuna intenzione di farlo – bensì potremmo ritrovarci nelle condizioni di essere cacciati. In realtà, nemmeno questo scenario appare in sé realistico. Vi immaginate una Germania a chiederci di tornare alla lira? Ne seguirebbero decenni di relazioni diplomatiche azzerate e su Berlino ricadrebbe una responsabilità storica troppo grande per essere sostenuta da chi subisce ancora oggi l’onta della sconfitta in due guerre mondiali. Molto, molto più probabile, invece, che uno shock, quel “cigno nero” di cui ha parlato il ministro, crei le condizioni perché l’uscita dall’euro dell’Italia diventi inevitabile. In quel caso, nessuno ci tratterrebbe più e a Roma non vi sarebbe più sufficiente capitale politico da investire nella prosecuzione di un’esperienza percepita come fallimentare.
Paolo Savona: prepariamoci a uscire dall’euro e a un nuovo attacco
Bisogna chiedersi semmai cosa s’intenda per cigno nero. In sé, trattasi di un evento imprevedibile e potenzialmente molto negativo. Di quale tipo? Viene in mente di certo uno shock finanziario, magari a seguito di una nuova crisi dello spread, che colpirebbe stavolta quasi esclusivamente i nostri BTp, i cui rendimenti viaggiano già su livelli di gran lunga superiori a quelli non solo “core” della Germania, bensì pure del resto della periferia dell’area, Portogallo incluso e solo Grecia esclusa. Ormai, un decennale emesso da Atene offre appena l’1,15% in più di un nostro omologo, ovvero meno di quell’1,4% di differenziale che ci separa dai Bonos della Spagna. In altri termini, il debito pubblico italiano viene assimilato sempre più a quello ellenico sui mercati finanziari, distanziandosi dagli altri debiti sovrani. Il fatto è grave, se si considera che la Grecia stia per uscire da 3 salvataggi internazionali per complessivi 316 miliardi di euro e che nel 2012 abbia ristrutturato i bond in mano ai creditori privati, tagliando il loro valore nominale di 107 miliardi. L’Italia, nonostante le difficoltà, non ha mai chiesto e ottenuto un solo centesimo da altre economie o enti.
Ma la crisi dei BTp non è (solo) frutto di un giudizio sommario degli investitori, bensì conseguenza di una crescita economica fin troppo lenta e che affonda le sue radici ormai nel lontano inizio anni Novanta. Il pil tricolore continua ad accumulare ritardi rispetto al resto dell’Eurozona e nonostante abbia cessato di arretrare, ha ripreso a risalire al ritmo più lento di tutta l’area, un fatto che, unitamente all’attesa lievitazione dei tassi nei prossimi anni, conferma le preoccupazioni di analisti e mercati sulla nostra capacità di onorare il debito, specie in un clima di apparente indisponibilità degli italiani a compiere eventuali nuovi sacrifici per mettere i conti pubblici ancora più in sicurezza.