Miguel Pesce si è insediato come 57-esimo governatore della banca centrale dell’Argentina in appena 85 anni di storia. I suoi predecessori sono durati in media meno di un anno e mezzo ciascuno e già questo la dice lunga sulla credibilità di cui gode un istituto, che nei fatti è assoggettato al potere politico e ai desiderata del governo di turno. Sarà anche per questo che Pesce, al suo primo discorso da responsabile della politica monetaria, le ha sparate piuttosto grosse. Egli ha annunciato l’obiettivo di combattere l’inflazione tagliando ulteriormente i tassi, sostenendo che non sarebbe alzando gli interessi che si frenerebbe la crescita dei prezzi.
Come debutto, non c’è che dire. A dicembre, la banca centrale ha già tagliato i tassi due volte, portandoli al 55%, il livello ancora più alto al mondo. L’inflazione a novembre si è attestata al 51,4%, per cui i tassi reali restano positivi e il neo-governatore non esclude che ciò accada anche nei prossimi mesi. Ma la lotta all’inflazione vorrebbe imbracciarla con strumenti diversi di quelli di cui dispone come capo dell’istituto. Egli ha dichiarato di puntare a un “patto sociale” tra governo, imprese e sindacati per contenere i prezzi, i quali crescerebbero “per inerzia”, ovvero sulla base dei livelli passati.
Probabilmente, Pesce non avrà avuto il tempo di leggere i dati macro, che raccontano di un deprezzamento del cambio di circa il 40% nell’ultimo anno. E poiché le importazioni costano di più, sembra naturale che i prezzi al consumo esplodano; altro che inerzia! Ma se il buongiorno si vede dal mattino, non pare che gli argentini stiano accogliendo al meglio il nuovo governo peronista di Alberto Fernandez, vincitore netto già al primo turno delle elezioni presidenziali di ottobre. Sul mercato nero, il cosiddetto “dolar blue” vale oltre 72 pesos, che si confronta con i 63 pesos richiesti dal cambio ufficiale.
L’Argentina torna ai vecchi mali del peronismo per combattere la crisi dell’economia
Monta la sfiducia verso i pesos
Di fatto, le distanze tra i due tassi di cambio sono salite a oltre il 17%, circa 100 volte in più di quelle precedenti alle elezioni primarie di agosto, le quali segnalarono una vittoria quasi certa dei peronisti due mesi più tardi. Lo “spread” allarma, perché più esso si allarga e più è indice della caccia ai dollari sul mercato, prova tangibile di sfiducia verso la valuta locale. Questa ha perso contro il dollaro ben l’8% dalla vittoria di Fernandez, quando evidentemente la banca centrale ha iniziato ad abbandonare gradualmente la difesa del cambio, messa in campo nei due mesi precedenti.
Altro segno di sfiducia degli argentini è il boom di transazioni di Bitcoin sulla piattaforma domestica LocalBitcoins. Nella settimana del 21 dicembre risultano essere avvenuti scambi per 32,6 miliardi di pesos, pari a più di 460 milioni di euro, un nuovo record storico per l’Argentina. Sarebbe l’ennesimo indizio della fame di assets con cui mettere in salvo i propri risparmi, specie dopo l’introduzione dei controlli sui capitali, i quali limitano le esportazioni di valuta pesante all’estero e gli stessi prelievi settimanali in dollari.
Il patto sociale a cui ambisce Pesce semplicemente appare ridicolo: gli argentini non si fidano del loro governo e lo gridano ai quattro venti. Senza fiducia, non è possibile siglare alcun accordo per calmierare stabilmente salari e stipendi da un lato e prezzi dall’altro. Per ammissione dello stesso neo-governatore, la banca centrale ha perso credibilità nell’anno appena trascorso, a causa di previsioni macro rivelatesi errate. E per non sbagliare, egli ha evitato di farne di proprie, accentuando il senso di smarrimento nella seconda economia sudamericana, la quale si avvia a un’altra ristrutturazione del debito estero.
Il quasi default dell’Argentina non spaventa i mercati e i bond recuperano