In tempi di dibattiti infuocati e al contempo vuoti sulle analisi benefici-costi – siamo nel terreno scivoloso della TAV – abbiamo appreso che il “policy maker” agirebbe sulla base della convenienza o meno nell’adozione di una misura di natura economica o nell’effettuare un investimento pubblico. Dovrebbe essere scontato, ma non lo è per svariate ragioni: in primis, perché misurare i benefici può risultare ben più complesso dei costi immediatamente osservabili, intervenendo valutazioni spesso extra-economiche e in sé opinabili. Ad esempio, il legislatore potrebbe valutare meritevole la costruzione della linea dell’Alta Velocità tra Torino e Lione anche solo per il fatto che gli abitanti della Val di Susa respirerebbero un’aria più salubre.
Ma l’analisi benefici-costi non è una prerogativa dei soli governi, bensì il modus operandi quotidiano nelle scelte di ogni individuo, quando nella sua qualità di consumatore deve decidere se effettuare un acquisto oggi o risparmiare per il futuro, oppure da lavoratore se accettare una data retribuzione e quante ore lavorare, o ancora da imprenditore se abbia senso produrre un un’unità supplementare di un prodotto o di un servizio, etc. E quando entra in cabina elettorale? Saremmo portati (erroneamente) a pensare che ai seggi prevalga sempre e solo un sentimento ideologico o l’effetto simpatia/antipatia per questo o quel candidato, il ché è spesso vero. Alla lunga e ragionando sui grandi numeri, però, gli elettori scelgono i partiti e i candidati da inviare nelle assemblee elettive sulla base di preferenze, che rispecchiano interessi economici individuali e non lo sbandierato “bene collettivo”.
Tutti, chi prima e chi dopo, votiamo un partito a seconda che ci convenga. Certo, l’analisi benefici-costi non è detto che si riveli corretta, specie se disponiamo di informazioni errate o incomplete.
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Il nodo del debito pubblico
Tuttavia, non sempre spesa pubblica e tassazione camminano insieme. Un governo può decidere, almeno temporaneamente, di aumentare la prima e non la seconda, ricorrendo al debito pubblico. In teoria, questa soluzione accontenterebbe tutti: il primo gruppo, perché beneficerebbe di maggiori servizi, e il secondo, perché non pagherebbe più tasse e, comunque, si avvantaggerebbe di un miglioramento del benessere proprio e dei dei primi. Fin troppo bello per essere vero e, soprattutto, una soluzione definitiva. In realtà, il debito pubblico comporta un costo, vale a dire il pagamento degli interessi, che nei fatti grava sul bilancio statale. Quando esso incide poco sul pil, per un certo periodo risulta verosimile goderne senza grossi problemi. Una volta che cresce in percentuali relativamente elevate, il peso di quegli interessi inizia a farsi sentire e comporta il pagamento di imposte maggiori. La monetizzazione della spesa, ossia l’emissione di moneta con cui finanziare il deficit, per quanto usuale, possiede grossi limiti e presenta enormi rischi, provocando alta inflazione, in sé una tassa occulta su tutti i consumatori, specie i più poveri e con redditi fissi.
A quel punto, l’analisi benefici-costi muta; fare ancora più debiti si rivela costoso un po’ per tutti: per il primo gruppo, il quale si vedrebbe colpito da un taglio dei servizi erogati per la necessità di ridurre la spesa; per il secondo, che verosimilmente dovrà accollarsi ancora più alte imposte. Per questo, i politici che promettono più spesa pubblica si rivelano popolari nella prima fase, mentre a un certo punto gli elettori tendono a rivoltarsi contro, chiedendo loro il contrario, ossia tagli alla spesa e alle tasse. Il fondamento di una corretta analisi benefici-costi, però, risiede nel funzionamento dei prezzi di mercato, che fungono da costi necessari per la misurazione. E il costo di un aumento della spesa pubblica è dato dall’aumento necessario delle aliquote fiscali, il quale a sua volta è determinato dall’aumento della spesa per interessi. In pratica, spendere in deficit comporta maggiori interessi, i quali verranno pagati da tasse più alte. Ad alcuni (disoccupati e bassi redditi) continuerà a convenire, ad altri (in percentuale crescente sul totale della popolazione) no.
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Il fallimento “politico” della BCE di Draghi
La BCE ha fallito su questo punto cruciale. Nel 2014, ha annunciato il varo di potenti stimoli monetari con l’azzeramento dei tassi di riferimento, il loro abbassamento in territorio negativo per quelli sui depositi overnight e un piano di acquisto di assets, tra cui fondamentalmente titoli di stato dell’Eurozona. Misure non convenzionali, una politica non ortodossa, tesa a sostenere l’inflazione, attraverso la compressione degli interessi sul mercato, ad incremento della quantità di liquidità circolante e disponibile per consumi e investimenti. Gli economisti hanno anche parlato di “repressione finanziaria” per descrivere il fenomeno, per cui i risparmiatori hanno dovuto accontentarsi di interessi nettamente inferiori a quelli desiderati, spesso della stessa inflazione, per non dire nominalmente negativi, cioè sono stati costretti a investire in prodotti che continuano ad erodere il loro capitale.
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Quando queste misure vennero lanciate, la Bundesbank si oppose, sostenendo con il suo governatore Jens Weidmann che avrebbero incentivato l'”azzardo morale” tra i governi e sul mercato. In che senso? I primi avrebbero approfittato dei bassi costi di rifinanziamento per indebitarsi ulteriormente, anziché per riformare le loro economie e tendere a una crescita sostenibile di medio-lungo periodo; il secondo si sarebbe assunto rischi maggiori, pur di ottenere rendimenti più alti, investendo in “asset class” meno solide. A distanza di 4-5 anni, dobbiamo ammettere che i tedeschi ebbero ragione. Come vediamo da tempo, ormai persino i titoli “spazzatura” rendono così poco, che gli investitori li comprano per guadagnarci qualcosa e nemmeno fiutando il reale rischio corso, visto che il rendimento non funge più da vero segnale per quest’ultimo.
L’azzardo morale di governi e mercato
E i governi hanno effettivamente smesso di fare riforme laddove risultavano e risultano più necessarie, come Italia, Spagna e Francia. I rendimenti ai minimi storici hanno allentato la pressione, affinché attuassero politiche strutturali di sostegno alla crescita, illudendo o confondendo gli stessi elettori. Tornando all’analisi benefici-costi, infatti, una porzione rilevante (e crescente) di cittadini del Sud Europa ritiene poco costosa l’opzione del deficit spending, valutandola desiderabile rispetto all’alternativa dell’austerità fiscale, che prenderebbe le forme di un taglio della spesa o di un aumento delle tasse o di entrambe. Perché ridurre il deficit e varare riforme impopolari all’impatto, in quanto socialmente costose, quando ci si può indebitare a costi prossimi allo zero, se non sotto di esso? In effetti, come dare loro torto! Se con un debito pubblico sopra il 130% del pil, l’Italia paga la media del 2% per emettere nuovo debito, meglio battere su questa strada per stimolare l’economia, anziché rischiare contraccolpi.
C’è un problema in queste valutazioni: si fondano su prezzi sbagliati, o meglio, “distorti” da una politica monetaria non ortodossa e che paradossalmente è finita con l’incentivare il voto alle formazioni anti-austerità o anche dette “populiste”, a volte di natura sovranista. Se la BCE non avesse adottato misure così estreme, i tassi di mercato sarebbero oggi ben più alti. Di conseguenza, indebitarsi costerebbe di più e ciò renderebbe la spesa pubblica in deficit un’opzione desiderabile per una percentuale relativamente bassa di cittadini/elettori italiani, francesi, spagnoli, etc. Qualcuno obietterà che la pressione dei mercati non avrebbe incentivato l’adozione di riforme da parte dei governi, anzi avrebbe forse aggravato il rischio di instabilità politica. Nell’immediato, probabile. Nel tempo, la ragione avrebbe prevalso sulla fanta-finanza e gli elettori sarebbero stati messi dinnanzi a un bivio: un po’ più di spesa e molte più tasse o meno spesa e meno tasse (future)?
In verità, ad avere incentivato l’azzardo morale tra gli elettori è stata anche la ricetta sbagliata loro propinata dai governi, cioè impostata su un’austerità demenziale, caratterizzata perlopiù da aumenti delle imposte e non da tagli alla spesa, in economie dove già la pressione fiscale risultava altissima, come in Italia, e in cui la spesa pubblica travalica quasi sempre di parecchio i confini dello stato sociale. Fosse stato ascoltato l’appello del Prof Alberto Alesina per una “austerità espansiva” tramite riduzione della sola spesa, forse la ricetta avrebbe riscosso maggiore sostegno popolare. Certo, il taglio della spesa pubblica sarebbe impopolare tra le fasce che ne verrebbero colpite maggiormente, cioè dipendenti pubblici, disoccupati e redditi bassi, ma sarebbe stata la soluzione meno dolorosa per tutti. Con il “quantitative easing”, la BCE di Mario Draghi non ha fatto guadagnare tempo ai governi per riformare, come supponeva, bensì ha accresciuto la domanda di deficit, rendendolo più a buon mercato, allontanando le prospettive riformatrici. E cosa ancora peggiore, ha creato una sorta di convinzione diffusa per cui il debito è e dovrà costare poco anche nel futuro prossimo, come se l’era dei tassi zero non dovesse finire mai.
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