“La più grande sconfitta della nostra storia”. E’ la sintesi del pensiero di Alessandro Di Battista sull’esito delle elezioni regionali per il Movimento 5 Stelle, affidato a un post su Facebook. Come dargli torto? Non solo il principale partito del Parlamento italiano resta ancora una volta a bocca asciutta, non conquistando alcuna regione, ma i numeri del collasso dei consensi sono ovunque agghiaccianti: in Puglia, luogo di provenienza del premier Giuseppe Conte, si passa dal 45% delle politiche del 2018 al 9,3%; in Campania, casa del ministro degli Esteri e del presidente della Camera, si sprofonda dal 44,5% all’11%; nelle Marche si passa dal 35,5% al 9%; in Toscana dal 25% al 7%; in Liguria dal 34% al 7,6%; infine, nel Veneto dal 24% al miserrimo 3,6%.
Taglio parlamentari: gli italiani hanno vinto un caffè, ma pagheranno loro il conto
Eppure, lunedì sera avevamo visto un Luigi Di Maio raggiante davanti ai microfoni dei giornalisti, commentando positivamente la svolta “storica” del taglio ai parlamentari, con il “sì” al referendum al 70%. Premettendo che la riforma sia stata condivisa da tutti i partiti politici, pur solo in ultima lettura alle Camere dal PD, il punto è che i grillini non hanno compreso che il popolo italiano potrebbe aver votato in massa per mandare a casa 345 tra deputati e senatori, disgustati dall’incompetenza e dal tasso di trasformismo dimostrati proprio da loro in questi due anni abbondanti di governo.
Di Battista abbaia, ma ad oggi non morde. Far saltare il governo non conviene a nessuno dei pentastellati, perché segherebbero l’albero su cui stanno goduriosamente appollaiati, essendo passati con estrema disinvoltura dall’alleanza con la Lega a quella con il PD. Sanno che un passo indietro sarebbe tecnicamente difficile da compiere, perché hanno esaurito l’arco parlamentare delle alleanze e non potrebbero che doversi confrontare con gli umori popolari, quelli che hanno vistosamente segnalato anche alle elezioni amministrative dei giorni scorsi la quasi totale assenza di fiducia nei confronti dell’M5S.
Le armi spuntate di Di Battista
Il partito fondato da Beppe Grillo è di fatto morto. Quel che resta sono le spoglie in mano a un nutrito gruppo di carrieristi, deciso a legarsi mani e piedi al PD per non soccombere e per darsi una pseudo-prospettiva politica nel campo progressista, tradendo le premesse iniziali di una forza trasversale e autonoma dagli schieramenti. Pur di non far cadere Conte, tutto va e andrà bene. Se Nicola Zingaretti pretenderà il rimpasto, prima o poi lo otterrà. Se il PD premerà per chiedere che l’Italia acceda ai fondi sanitari del MES, si troveranno le parole per indorare la pillola agli ultimi giapponesi rimasti a votare per Di Maio & Co. Se il PD vorrà eleggere un presidente della Repubblica tra i propri ranghi, nessun problema.
Essendo rimasto furbescamente fuori da questa legislatura, Di Battista può permettersi qualche critica fuori dalle righe e persino irriverente verso il premier e i quadri del partito, ma non otterrà il seguito desiderato né tra i parlamentari (non parliamo nemmeno tra minimi, sottosegretari e presidenza della Camera), né tra gli stessi elettori, perché quelli residui non credono più tanto alla rivoluzione grillina, ma si accontentano di vedere all’opposizione Matteo Salvini e Giorgia Meloni e, soprattutto, sanno che i loro beniamini non rivedrebbero probabilmente mai più i palazzi del potere, se non navigando su internet.
L’M5S grillo-dimaiano ha scelto di ridursi in una costola del centro-sinistra, fiutando l’impossibilità di tornare a ottenere le percentuali del 2018. Non c’è alcunché di ideologico in questo epilogo, che si fonda semplicemente sulla convenienza. I “puri” alla Di Battista verranno messi facilmente fuori gioco e, se insisteranno nell’ostacolare l’alleanza organica con il PD, saranno accompagnati alla porta senza troppi complimenti.
L’origine “chavista” del Movimento 5 Stelle e il rischio Venezuela per l’Italia