A leggere i grafici di borsa, sembra che le preoccupazioni per il rischio di una “guerra” commerciale globale scatenata dai dazi dell’amministrazione Trump esistano solo tra la grande stampa internazionale. Wall Street è scesa dal picco massimo toccato nel gennaio scorso, ma solo del 6%, restando al di sopra, pur di poco, dei livelli di apertura di inizio anno, nonché guadagnando quasi il 40% da quando il tycoon ha vinto a sorpresa le elezioni presidenziali dell’8 novembre 2016. E dire che dalla primavera la Casa Bianca ha iniziato a trasformare in fatti le minacce contro la Cina e persino ai danni di alleati storici come Canada e UE.
Quando crollerà la borsa americana, mandando in recessione gli USA?
Certo, sempre Trump ha minacciato di estendere i dazi su importazioni cinesi per 400 miliardi di dollari, pari a più del 2% del pil a stelle e strisce, una misura che, se attuata, avrebbe contraccolpi economici sia diretti, sia legati al panico che si scatenerebbe sui mercati e tra le multinazionali. Tuttavia, si tratta ad oggi di pure minacce, mentre sappiamo che Pechino e Washington lavorano già da mesi sottotraccia per trovare un’intesa su importazioni americane dalla Cina per 200 miliardi. Aldilà dell’esito, il presidente Xi Jinping mostra di offrire un gesto distensivo verso la Casa Bianca, allontanando lo spettro di una vera guerra commerciale.
I deficit americani
Il segretario al Commercio, Wilbur Ross, ha escluso che un eventuale crac della borsa per paura delle conseguenze spingerebbe il presidente Donald Trump a indietreggiare sul dossier. Esso rappresenta il cuore pulsante della sua fisionomia politica e nel 2020 dovrà ripresentarsi con risultati concreti da sbandierare ai propri elettori, specie quelli della base operaia nella Rust Belt. Se questo è vero, allora non è certamente finita. E, però, i dati hanno la testa dura e segnalano per lo stesso Trump una realtà più complessa di quella raccontata. Vero, l’America ha chiuso anche il 2017 con un saldo commerciale passivo per quasi il 3% del pil, ovvero di circa 550 miliardi di dollari. Complessivamente, però, il livello delle esportazioni resta basso, arrivando appena al 15%. Sommando le esportazioni, si ha che il grado di apertura commerciale degli USA sia praticamente la metà di quello di economie come Italia e Germania.
Dunque, l’America esporta e importa relativamente poco, anche in conseguenza delle sue grandi dimensioni economiche, che fanno sì che le imprese abbiano a disposizione un mercato domestico spesso sufficiente per i loro livelli produttivi. E il cronico deficit commerciale rispecchierebbe non tanto la bassa competitività delle sue imprese, quanto la robustezza della sua economia, che genera consumi interni sostenuti, i quali a loro volta alimentano le importazioni di beni e servizi dall’estero. Come abbiamo spiegato più volte, se l’amministrazione Trump volesse colmare il gap tra import ed export strutturalmente, dovrebbe attuare una politica fiscale restrittiva, tagliando il deficit federale, in modo da ridurre l’eccesso di spesa pubblica, vale a dire i consumi interni (teoria dei “deficit gemelli”).
I dazi di Trump? L’America si è stancata di mantenerci e attacca l’austera Germania
In sostanza, gli americani consumano troppo e risparmiano troppo poco. Pertanto, l’eccesso di consumi negli USA avviene a debito, quest’ultimo finanziato ricorrendo ai capitali esteri, cioè cinesi, giapponesi, europei, etc.
Le ritorsioni blande di Europa e Cina
Dal canto suo, la Cina ha già assistito a un deprezzamento del cambio del 6,5% in appena tre mesi contro il dollaro. Diversi analisti ipotizzano che si tratti di una mossa di Pechino per reagire all’imposizione dei dazi americani, quasi una sorte di compensazione che la People’s Bank of China avrebbe offerto alle imprese cinesi esportatrici. In realtà, il fenomeno sembra più strutturale e le autorità nazionali non avrebbero alcun interesse a provocare una svalutazione dello yuan, rischiando altrimenti la fuga dei capitali come nel 2015 e rendendo meno credibile il processo di “internazionalizzazione” della valuta, avviato negli anni recenti con il suo inserimento, tra l’altro, tra le riserve valutarie dell’FMI. Inoltre, il governo di Pechino sta lentamente e faticosamente cercando di convertire l’economia domestica verso un modello più incentrato sulla domanda interna, cosa che richiede un cambio almeno stabile e tassi relativamente bassi.
La guerra commerciale tra USA e Cina fa vittima lo yuan
La stessa Europa, che pure minaccia ritorsioni all’insegna del “tit for tat” contro le mosse di Trump, non cerca certo la guerra commerciale con l’economia americana, suo primo mercato di sbocco con oltre 151 miliardi dollari di esportazioni nette registrate nel 2017.
Niente guerra commerciale, ma scosse di assestamento
Nell’insieme, quindi, sembra che il pianeta non stia dirigendosi verso una guerra commerciale, semmai che i dazi di Trump abbiano fatto emergere nel dibattito pubblico gli squilibri mondiali. Il presidente americano utilizzerebbe le minacce per negoziare con i partner commerciali su un piano di relativa forza, ma molto difficilmente le metterà in pratica nella sua formula più spinta. A restare colpite sarebbero le stesse imprese americane, che deterrebbero fuori dagli USA liquidità accumulata per 3.000 miliardi di dollari, frutto spesso di utili generati proprio nel resto del mondo. La catena del valore è diventata piuttosto integrata, per cui ciò che formalmente per un’economia rappresenta importazioni, nei fatti lo sarebbe forse solo in parte, trattandosi spesso di beni prodotti all’estero da imprese nazionali, a cui vanno i profitti. La vera scommessa di Trump (ma dovrebbe esserlo per tutti gli altri leader) sarebbe di far sì che i frutti positivi della globalizzazione si materializzino in loco, ovvero che quei profitti realizzati all’estero dalle multinazionali domestiche rimpatrino e generino ricchezza visibile per lavoratori e imprese locali.
Viste così le cose, i mercati finanziari non starebbero scontando affatto una guerra commerciale, quanto la ricerca da parte degli USA di un equilibrio avanzato, un riposizionamento in grado di attutire i contraccolpi sociali generati dalla globalizzazione, accelerandone i movimenti tellurici di assestamento per giungere a un’agognata stabilità socio-economica, a cui ambiscono oggi tutti i popoli delle economie avanzate e segnalata anche dagli esiti elettorali degli ultimi anni in America ed Europa con l’avanzata delle formazioni cosiddette “populiste”.
Perché i dazi di Trump finiranno per colpire il debito americano