Al 31 dicembre 2018, la BCE deteneva a bilancio assets acquistati con il “quantitative easing” per 2.600 miliardi, di cui oltre 2.000 miliardi erano titoli del debito pubblico emessi dagli stati dell’Eurozona. In rapporto al pil, questi ultimi pesano più del 17%, facendo scendere sotto il 70% la quota di debito sovrano nell’area effettivamente in possesso dei creditori privati. Con i 20 miliardi di acquisti mensili dal mese prossimo, verosimilmente l’istituto metterà in cassa altri 15 miliardi e rotti al mese di bond governativi. In un anno, farebbero 180 miliardi.
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E chissà che la BCE non si fermerà di fare shopping proprio quando tale limite verrà raggiunto. A quale fine? Pur senza una necessaria ufficializzazione, non possiamo più escludere che il suo obiettivo sotterraneo sia di “cancellare” nei fatti i debiti in eccesso, attraverso una forma mascherata di monetizzazione. Diverse sarebbero le forme possibili. Vediamole.
Il ruolo della BCE sui debiti sovrani
La BCE potrebbe, anzitutto, rinnovare in eterno questo debito in pancia, con la conseguenza che gli stati dell’euro non dovrebbero preoccuparsi di trovare domanda sul mercato per le centinaia di miliardi in scadenza ogni anno. Il rinnovo avverrebbe alle condizioni di mercato, in quanto l’istituto si limiterebbe ad acquistare nuovi titoli per sostituire quelli scaduti, ma così facendo non segnalerebbe agli investitori il carattere “perpetuo” e a condizioni “straordinarie” del suo intervento, sebbene questi già da anni tenga i rendimenti sovrani a livelli evidentemente repressi, negativi per gran parte delle curve delle scadenze.
Ed ecco che la BCE, a un certo punto, approfittando dei bassissimi costi di rifinanziamento, potrebbe proporre agli stati dell’area un accordo che suoni più o meno così: tutti i titoli del debito in pancia saranno trasformati in un maxi-bond a 100 anni, il cui tasso d’interesse annualmente dovuto a Francoforte sarebbe in linea con il “pricing” di mercato.
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Sui 375 miliardi di BTp in mano alla BCE, ad esempio, se l’Italia dovesse pagare il 3% d’interesse all’anno, l’esborso sarebbe pari a oltre 11 miliardi di euro, qualcosa come circa lo 0,6% del pil oggi. Ma ipotizzando una crescita annua nominale del 2%, il peso degli interessi scenderebbe allo 0,4% tra 20 anni e allo 0,3% tra 40, mentre tra un secolo non arriverebbe allo 0,1%. E il vero vantaggio per gli stati non sarebbe nemmeno questo, quanto la reazione certamente positiva dei mercati, che nei fatti non avrebbero più dubbi sulla sostenibilità della quota di debito “congelata” a Francoforte.
La cancellazione dei debiti
L’ipotesi più estrema, anche la più remota e apertamente in violazione dello statuto della BCE, sarebbe la cancellazione integrale di tali debiti. Essendo per l’istituto un attivo, formalmente ciò ne zavorrerebbe il capitale, richiedendo l’intervento delle banche centrali azioniste per integrarlo.
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Infine, un’ipotesi ancora più radicale di quella della conversione dei debiti in maxi-bond a lunghissima scadenza, ma non quanto la cancellazione: fissare un limite massimo inferiore a quello di mercato per il tasso a cui verrebbero trasformati i titoli. Ad esempio, la BCE potrebbe tramutare tutti i BTp in bond a 100 anni a un tasso annuo di un x% inferiore a quello che si formerebbe sul mercato. Facendo riferimento all’esempio sopra indicato, anziché imporre il 2,5-3%, si accontenterebbe dell’1,5-2%, così da abbattere i costi di rifinanziamento dell’Italia a ritmi più veloci. Anche questa pratica contrasterebbe con lo statuto, sebbene si avrebbe modo di aggirarla formalmente concentrando gli acquisti sulle scadenze più lunghe, così da ottenere rendimenti più bassi ai quali effettuare la ristrutturazione dei bond.