Grandi manovre attorno alla Cassa depositi e prestiti, il braccio finanziario del Tesoro nel sistema industriale italiano. E’ di ieri la notizia che, su richiesta del governo Gentiloni, l’ad Claudio Costamagna ha deliberato l’ingresso in Telecom fino al 5%, stanziando una cifra complessiva massima di 750 milioni. L’obiettivo di questa manovra consiste nel dare sostegno al tentativo del fondo americano Elliott Management di mettere in minoranza l’azionista di controllo francese, quella Vivendi di Vincent Bolloré con cui Roma è entrata in conflitto negli ultimi tempi per ragioni sia formali (la mancata notifica del controllo di fatto), sia sostanziali (la scalata ostile a Mediaset e il controllo di un asset strategico come la rete), sia anche politici (la rivalsa contro Parigi per l’esproprio dell’italiana Fincantieri in Stx).
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Ma non è l’unico dossier aperto sulla scrivania di Costamagna. C’è il caso Alitalia. La compagnia aerea è commissariata da un anno e ha incassato dallo stato un prestito da 900 milioni, che dovrebbe essere restituito a settembre, ma di questo passo è inverosimile che la scadenza venga onorata. Non ci sono pretendenti ufficiali per rilevarla, nonostante si siano fatti nei mesi scorsi Lufthansa, Ryanair, Easyjet e i fondi americani Cerberus, Elliott e Greybull, i quali hanno acceduto alla cosiddetta virtual data room.
Di Cdp si era parlato anche in occasione dello studio del salvataggio pubblico di MPS, allorquando s’immaginava che al posto del Tesoro sarebbe entrata nel capitale della banca la sua controllata.
La Cdp è la nuova Iri
Vada come vada, la certezza è che la Cdp ha assunto un ruolo centrale nel panorama industriale nazionale, perché da essa transitano tutti i dossier sulle crisi aziendali, anche solo per essere letti. Di fatto, da anni è nata una sorta di Iri 2.0, l’ente messo in piedi dal regime fascista nel 1933 e liquidato dal centro-sinistra nel 2000. Si pensava che non sarebbe stato né rimpianto e tanto meno imitato. Invece, dopo pochi anni ecco risorgere attraverso un istituto, le cui caratteristiche sono diventate sempre più simili a quelle del crocevia tra finanza, industria e politica fino agli inizi degli anni Novanta, ma che si distingue per un solo aspetto: è ammantato da un velo di estrema ipocrisia.
Chiedete a un ministro dell’Economia o dello Sviluppo o a un premier se la Cdp non sia la longa manus dell’esecutivo negli affari economici e vi risponderà stizzito, volendo allontanare da sé anche la sola ombra di dirigismo. L’uscente Carlo Calenda ci tiene molto, ad esempio, a passare per una celebrità del pensiero economico liberale, ma ha avallato il salvataggio a carico dei contribuenti di MPS e delle due banche venete, sta manovrando l’intesa tra Elliott e la Cdp su Telecom-TIM e sta cercando di utilizzare sempre la Cdp per risolvere la grana Alitalia, rimasta senza pretendenti e senza futuro, nelle mani di commissari, che dovevano rimanere alla guida della compagnia per soli 6 mesi e, invece, dopo un anno sono ancora lì.
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E nell’attivismo di Costamagna su TIM e Alitalia vi sarebbe anche l’ambizione a un secondo mandato. La nomina spetterà al prossimo governo e bisogna convincere Movimento 5 Stelle e Lega, i due vincitori delle elezioni politiche e probabili azionisti della nuova maggioranza, di essere l’uomo giusto al momento giusto. Trattandosi di formazioni a vocazione “sovranista”, quale migliore occasione di ostentare la difesa di assets strategici nazionali in chiave anti-straniera? E se le competenze della Cdp si sono ampliate a tutto raggio sotto governi formalmente rispettosi del libero mercato, figuriamoci cosa accadrà con un premier protezionista e votato alla difesa dell’italianità di tutto ciò che si trovi sul nostro territorio. I grillini, in particolare, e i marpioni della finanza lo hanno intuito e la Cdp fa adesso più gola che mai a tutti i manager. Nei prossimi anni, guidarla potrebbe significare essere i veri padroni dell’Italia. Chiunque entri ed esca da Palazzo Chigi.