Il 2018 non è stato un anno positivo per l’oro, che ha chiuso con quotazioni in flessione del 7,3% a 1.222 dollari l’oncia. Anche considerando che mediamente il dollaro si sia apprezzato di oltre il 4% nel periodo, i prezzi del metallo non hanno retto all’aumento dei tassi americani, i quali hanno fatto lievitare i rendimenti dei Treasuries, principali concorrenti dell’asset senza cedola. Tuttavia, è innegabile come tra ottobre e novembre si sia registrata una dinamica favorevole alle quotazioni, le quali hanno oltrepassato la soglia dei 1.200 dollari, superando nelle scorse sedute persino quella dei 1.300, salendo ai massimi da giugno.
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C’è, però, un dato che ci indurrebbe a pensare che dietro ai recenti rialzi delle quotazioni vi sia qualcosa di più. La Cina ha aumentato a dicembre le sue riserve auree da 59,24 a 59,56 milioni di once. Ai valori attuali, parliamo di una variazione positiva pari a circa 410 milioni di dollari. Nulla di eclatante, anche se si tratta del primo aumento segnalato dall’ottobre 2016, quando furono rivelate 130.000 once in più rispetto al mese precedente. Nel luglio del 2015, Pechino dichiarò un maxi-aumento del 57% a 53,3 milioni di once di oro, dopo che le sue riserve erano rimaste stabili per sei anni. Tuttavia, tutti sapevano che non si trattasse di un reale movimento istantaneo, bensì frutto di acquisti avvenuti negli anni e resi pubblici a una certa data.
Dopo il biennio 2015-2016, nessun nuovo acquisto rivelato.
Perché la Cina compra oro
Resta una domanda: perché la Banca Popolare Cinese sta incrementando le sue riserve auree? Diciamo subito che, ai valori attuali, queste ammontano a oltre 76 miliardi di dollari, pari al 2,5% delle riserve in valuta estera, una percentuale ancora complessivamente bassa, se raffrontata al 17,6% della Russia, al 5,3% della Svizzera e al 5,5% dell’India. Lo scorso anno, la Cina ha visto ridursi le riserve in valuta estera di 67,24 miliardi di dollari, pur restando queste alte, a 3.073 miliardi. Si è trattato del terzo calo in quattro anni. Evidentemente, i surplus commerciali non sembrano più sufficienti a compensare i deflussi dei capitali. Si consideri che per la prima volta in 25 anni, la Cina ha chiuso i primi 9 mesi del 2018 con un saldo corrente leggermente negativo. Ciò spiega l’indebolimento dello yuan, che contro il dollaro ha perso nell’anno il 7%.
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Una percentuale adeguata di oro tra le riserve servirebbe alla seconda economia mondiale per segnalare al mondo garanzie proprio sul cambio. Non è un mistero che la Cina si sia posta come traguardo di lungo periodo l’internazionalizzazione dello yuan, inserito sin dal 2015 tra le riserve ufficiali del Fondo Monetario Internazionale, nonostante le rimostranze americane, trattandosi di una valuta non facilmente accessibile dall’estero e dalle modalità opache di fissazione dei tassi di cambio.
Lo sganciamento dal dollaro
E la Cina sta cercando si sganciarsi dal dollaro in più modi. Sta tagliando le detenzioni di Treasuries, anche in risposta ai dazi dell’amministrazione Trump, avendole portate già in ottobre ai minimi dal maggio 2017 a 1.140 miliardi. E ha anche lanciato i contratti petroliferi in yuan, anche se non possiamo ancora parlare di successo sul fronte delle negoziazioni. Tuttavia, il dollaro resta centrale negli scambi internazionali e ad oggi nemmeno il Dragone asiatico può credibilmente farne a meno, non disponendo di alternative valide per l’impiego degli oltre 3.000 miliardi delle sue riserve. L’oro servirebbe quanto meno a diversificarne la composizione, sebbene esso stesso sia quotato in dollari e risenta delle fluttuazioni del cambio americano. Ora più che mai, con un’economia in vistoso rallentamento, Pechino deve convincere il mercato dei capitali a non abbandonarla.
Ad ogni modo, bisogna colmare le forti distanze che la separano dagli USA, che di oro ne detiene per 8.133,5 tonnellate, circa 4 volte e mezzo in più. Non a caso, la Russia di Vladimir Putin ha incrementato le sue riserve a 2.066 tonnellate, ben 650 in più negli ultimi 5 anni, nel bel mezzo delle tensioni con l’Occidente sul caso Ucraina e del crollo del rublo seguito a quello del petrolio. E il 2018 è stato l’anno in cui svariate banche centrali hanno acquistato oro, approfittando probabilmente delle sue quotazioni basse rispetto ai livelli apicali degli anni passati, in previsione di un loro aumento con l’atteso ritorno dell’inflazione presso le economie avanzate.
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