Dalla Germania arriva una notizia buona a metà sugli stimoli monetari della BCE. Sette degli otto giudici del secondo collegio della Corte Costituzionale di Karlsruhe hanno respinto il ricorso presentato da accademici e uomini d’affari tedeschi contro il “quantitative easing”, non trovando che esso violi il divieto posto dai Trattati europei di monetizzazione dei debiti sovrani. Allo stesso tempo, la Corte ha trovato che il governo federale di Berlino e la Bundesbank non avrebbero adottato i provvedimenti necessari per pretendere dall’Eurotower una valutazione del rispetto del principio di “proporzionalità”.
Secondo i giudici, bisogna chiarire che gli acquisti condotti dalla BCE in ottemperanza agli obiettivi di politica monetaria non impattino in misura sproporzionata sulla politica fiscale e la Bundesbank dovrà accertarsi che i titoli in pancia all’istituto siano venduti sulla base di una strategia di lungo periodo e coordinata all’interno dell’Eurosistema. Infine, essa precisa che la sentenza odierna non riguardi le misure adottate da Commissione e BCE per affrontare l’emergenza Coronavirus.
Cosa significa nel concreto? Il QE non è stato ritenuto incompatibile con la Costituzione tedesca, in quanto non violerebbe il divieto di monetizzazione dei debiti, contenuto nei Trattati europei. Ma le buone notizie, dal punto di vista italiano, si fermano qui. Anzitutto, entro tre mesi la BCE dovrà dare risposte alla Bundesbank sul programma di acquisti, altrimenti verrà meno per la seconda la possibilità di continuarvi a partecipare. E va da sé che senza la banca centrale della prima economia europea, la legittimità dell’intera politica monetaria verrebbe meno, così come anche probabilmente la stessa prosecuzione sarebbe tecnicamente impossibile, date le condizioni fissate a inizio 2015, tra l’altro con la regola del “capital key”.
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L’impatto sulla politica monetaria e i BTp
Cosa dovrà chiarire di più la BCE di quanto non abbia già fatto? In buona sostanza, dovrà esplicitare che il programma sia proporzionato al raggiungimento degli obiettivi. E questo comporta due considerazioni: non potrà essere “illimitato” nelle dimensioni e nel tempo, come pure per il primo caso ha di recente fatto intendere Francoforte con riferimento al PEPP, il piano emergenziale contro il Coronavirus. Vero è che quest’ultimo non sia stato oggetto della sentenza, ma il principio rimane lo stesso: la Germania non potrà avallare d’ora in avanti piani di acquisto di assets della BCE, che non risultino commisurati alle effettive esigenze e non temporalmente definite.
L’impatto della decisione odierna non sarà per l’immediato, perché i 20 miliardi di euro mensili fissati nel settembre scorso per gli acquisti di assets dal board allora presieduto da Mario Draghi restano intatti, così come i 120 miliardi extra stanziati a marzo per reagire alla crisi. Né il PEPP da 750 miliardi verrà intaccato. Ma la BCE non potrà più rimanere ambigua sui tempi del QE, né adombrare l’ipotesi che, una volta che questo sarà cessato, il suo bilancio resti intatto, un modo implicito per monetizzare i debiti sovrani nel tempo. In altre parole, non appena le condizioni macroeconomiche lo renderanno possibile, cioè quando il target d’inflazione sarà centrato stabilmente, l’istituto dovrebbe vendere i titoli di stato e gli altri bond in pancia, facendo venire meno una delle supposizioni su cui sinora il mercato aveva confidato per considerare sostenibili i debiti dei paesi fiscalmente meno solidi.
Il solo fatto che la BCE venga messa in mora dai tedeschi segnalerebbe ai mercati che la politica monetaria dell’Eurozona sia “sub judice”, ovvero che le mosse che d’ora in avanti Christine Lagarde potrà giocare per tentare di minimizzare o finanche annullare la frammentazione finanziaria nell’area siano limitate e non potranno travalicare i limiti convenzionali, difesi dai garanti della Costituzione tedesca.
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