Tra governo e Stellantis non se le stanno mandando a dire. Il primo è rappresentato dal ministro per il Made in Italy, Adolfo Urso, mentre la seconda parla perlopiù attraverso l’amministratore delegato Carlo Tavares. Il succo del discorso è questo. L’esecutivo nota che l’ex Fiat non solo non stia mantenendo la promessa di aumentare a 1 milione di auto all’anno la produzione in Italia, ma che anzi minacci lo smantellamento degli stabilimenti attivi sul nostro territorio nazionale in assenza di incentivi per le auto elettriche.
Secondo produttore cercasi
Per tutta risposta Urso ha replicato che se Stellantis non riesce a vendere un suo prodotto e a dicembre è stata superata per la prima volta da Volkswagen in fatto di vendite, evidentemente dovrebbe rivedere le sue politiche. Dopodiché il ministro ha chiarito che gli incentivi non potranno essere stanziati come in passato per finanziare l’acquisto di auto prodotte all’estero, tra cui la metà delle stesse vendute da Stellantis. Da cui la ricerca di un secondo produttore con il rammarico per quanto avvenuto negli anni Ottanta, quando si decise che l’unico concorrente sul mercato domestico fosse ceduto all’allora Fiat: Alfa Romeo.
L’errore di Prodi nel 1986 con Fiat
La polemica non è nuova. Già se ne discusse lo scorso ottobre e vide al centro del dibattito l’ex premier Romano Prodi. La storia è semplice. Alfa Romeo nacque agli inizi del Novecento come casa automobilistica con sede a Napoli. La sua striminzita produzione, che si calcolava nell’ordine di qualche centinaio di veicoli all’anno e anche meno, portò al collasso finanziario. Successivamente, la sede fu spostata a Milano e l’azienda ceduta a Banca Nazionale di Sconto.
Negli anni Ottanta, Alfa Romeo entrò in una nuova crisi di liquidità. L’Iri, allora guidata da Prodi, stava varando un programma ricco di privatizzazioni. Decise di cederla sul mercato al migliore offerente. L’americana Ford si mostrò interessata a rilevarla, ma alla fine la spuntò Fiat. Non è un mistero che per la seconda facesse il tifo la politica di quegli anni. L’idea era che sarebbe stato meglio tenere la casa automobilistica in mani italiane. Il problema è che l’operazione avrebbe portato all’eliminazione dell’unico produttore sul territorio nazionale in competizione con la società degli Agnelli.
Fiat senza rivali con l’acquisizione di Alfa Romeo
Secondo Prodi, Fiat riuscì ad ottenere Alfa Romeo con un’offerta più alta di Ford, che non rilanciò. La cessione sarebbe stata obbligata sul piano legale. Non c’era ancora la legge a tutela della concorrenza, che sarebbe entrata in vigore nel 1990. Se ci fosse stata, la cessione sarebbe diventata problematica o impossibile. Fatto sta che da allora lo strapotere di Fiat sul mercato dell’auto italiano è diventato strabordante e concomitante alla sua crisi. Consapevole che i governi di turno non avrebbero potuto confidare sulla produzione di una casa alternativa, Fiat ha giocato sulla minaccia del ricorso alla cassa integrazione per ottenere incentivi ad hoc con cui vendere auto che altrimenti sarebbero rimaste senza mercato.
Una tattica accettata dalla politica in cambio di una “pax sociale” saltata del tutto con la fusione con Chrysler prima e con Peugeot dopo.
Governo Meloni minaccia la nazionalizzazione
Urso ha capito che con Stellantis non si può dialogare alla pari fintantoché rimane lo squilibrio azionario a favore dello stato francese, presente nel capitale con una quota superiore al 6%. Per questo minaccia l’ingresso dello stato italiano a sua volta nel capitale. Una mossa che punta a far abbassare le ali agli Elkann-Agnelli, i quali si fanno forti dell’assenza di concorrenti produttori in Italia. Sarà difficile cancellare l’errore dell’86. La nazionalizzazione potrebbe essere la cura sbagliata a una diagnosi corretta. Prodi avrà le sue ragioni nel respingere le accuse, ma il suo nome gira troppo spesso quando abbiamo a che fare con privatizzazioni finite male. Da capo dell’Iri e da quello di governo.