La stretta monetaria globale di questi mesi è accostata con frequenza sempre maggiore a quanto accade agli inizi degli anni Ottanta. Gli USA di Ronald Reagan e il Regno Unito di Margaret Thatcher scesero in campo per combattere gli alti tassi d’inflazione che affliggevano le rispettive economie da ormai quasi un decennio. Riuscirono nell’impresa dopo avere volutamente portato in recessione in PIL con maxi-rialzi dei tassi di Federal Reserve e Banca d’Inghilterra. La manovra restrittiva dovette essere adottata dal resto delle economie mondiali per non subire la svalutazione del cambio.
Crisi dei paesi emergenti, il ricordo degli anni Ottanta
Negli anni dei tassi reali negativi e dell’inflazione a due cifre, tra i banchieri americani girava il detto “uno stato non può fallire”. In ossequio a tale credenza, fiumi di dollari portati in Occidente dalle petro-monarchie, in particolare, furono investiti nei paesi emergenti, dove i tassi d’interesse erano più alti e i rischi, tutto sommato, considerati bassi. Ma nell’agosto del 1982 ci pensò il Messico a spezzare l’incantesimo: il calo del prezzo del petrolio, di cui era esportatore, aveva ridotto le entrate fiscali. Viceversa, il costo di emissione del debito saliva al 5% del PIL. Di lì a poco, sarebbe esploso fino a sfiorare il 20% del PIL nel 1987. Il paese alzò bandiera bianca e il Fondo Monetario Internazionale si precipitò per impedire una crisi fiscale dagli effetti devastanti per i creditori, essenzialmente le banche americane.
Nel mondo di oggi, qualcosa di simile sta ripetendosi. Secondo l’agenzia di rating Fitch, i paesi emergenti avrebbero aumentato i debiti sovrani in valute straniere (dollari, euro, ecc.) dal 18% del PIL nel 2013 al 31% del 2021. Nel complesso, i debiti risultano saliti dal 34% al 60%. Cos’è successo in questi anni? Le banche centrali avevano azzerato i tassi e molti paesi emergenti si erano ritrovati a indebitarsi in valute forti a bassissimo costo.
Adesso, come quaranta anni fa, la musica è cambiata. Le grandi banche centrali hanno iniziato ad alzare i tassi per combattere l’alta inflazione. Rinnovare i debiti è diventato più costoso per tutti. Lo è a maggior ragione per i paesi emergenti, che stanno subendo contraccolpi anche sui mercati dei cambi. Tra l’inizio del 2020 e il febbraio scorso, cioè prima della guerra e durante la pandemia, Fitch calcola che le valute emergenti abbiano perso in media il 24% contro il dollaro. Escludendo Argentina e Turchia, il deprezzamento scenderebbe a poco più del 7%. Ma in questi ultimi mesi il dollaro ha continuato a rafforzarsi ai massimi da inizio millennio.
Si moltiplicano i casi di default
Paesi emergenti come Libano, Sri Lanka, Argentina, Ecuador, Zambia sono andati in default nell’ultimo biennio. A parte Buenos Aires, trattasi di economie minori. Ma nel complesso le emergenti incidono ormai per oltre il 40% del PIL mondiale. Erano marginali negli anni Ottanta. Da allora, poi, i mercati finanziari si sono globalizzati e i capitali hanno potuto spostarsi tranquillamente da una parte all’altra del pianeta. Nessuno di noi sa veramente dove siano stati investiti i propri risparmi. Se abbiamo aderito a un fondo pensione, non abbiamo con certezza idea se questi abbia impiegato una parte dei capitali in un angolo del pianeta a rischio.
A parziale rasserenamento di quanto sinora detto, c’è da dire che per alcuni paesi emergenti questa è una fase positiva, essendo esportatori di materie prime, i cui prezzi sono letteralmente esplosi negli ultimi mesi. Si pensi al Brasile, alla Cina, ai paesi del Golfo Persico o persino alla stessa Russia, che se non fosse per la guerra sarebbe oggi in boom economico.