Giovedì scorso, la banca centrale turca ha tenuto i tassi d’interesse invariati al 14%. Nessuna sorpresa per il mercato, che non si aspettava null’altro dal governatore Sahap Kavcioglu. Non perché non vi siano motivi per alzarli i tassi, semplicemente ormai la politica monetaria è assoggettata in toto ai desiderata del governo. L’inflazione a maggio è salita al 73,50%, il dato più alto da quando il presidente Erdogan è al potere dal 2002. Ma secondo l’istituto indipendente ENAG, i prezzi al consumo su base annua sarebbero cresciuti in realtà del 160,80%.
Pessimi dati macro in Turchia
Erdogan tiene in ostaggio la banca centrale, impedendole di alzare i tassi. L’anno scorso, l’istituto li tagliò dal 19% al 14% in appena tre mesi e mentre l’inflazione esplodeva. Servirebbe fare il contrario, specie in una fase in cui tutte le banche centrali aumentano il costo del denaro. Ma il presidente si è da tempo autoproclamato “nemico degli interessi”. Cita il Corano per giustificare il suo approccio non ortodosso alla materia. In realtà, punta a sostenere la crescita economica a colpi di svalutazione del cambio per incoraggiare la produzione in loco e le esportazioni.
Ad oggi, i dati gli danno torto. Nei primi quattro mesi dell’anno, le partite correnti in Turchia hanno esitato un saldo negativo sui 21 miliardi di dollari, circa il 3% del PIL atteso per quest’anno. E nel periodo gennaio-maggio, la bilancia commerciale è stata negativa di ben 43,2 miliardi. A questi ritmi, il dato annuale sprofonderebbe a -15% del PIL.
Lira turca a picco, guai elettorali per Erdogan
In altre parole, finora il tentativo di rendere la Turchia una piccola Cina alle porte dell’Europa non sta funzionando. L’unica certezza è che le cavie di questo esperimento economico sono le famiglie turche, il cui potere d’acquisto è letteralmente precipitato. Fino alle prossime elezioni del 2023, quasi impossibile supporre che Erdogan compia passi indietro. Ammetterebbe implicitamente di avere sbagliato. Dovrà necessariamente portare avanti questa linea suicida, ma con il rischio non solo di perdere le elezioni, malgrado l’assenza di un’opposizione forte e unita, bensì anche di attizzare il fuoco delle tensioni sociali con un’inflazione che dovrebbe accelerare nei prossimi mesi.
E dire che il crollo della lira turca sia frenato dalla banca centrale, che non fa che siglare contratti con istituti omologhi con cui sostenere il cambio “bruciando” riserve valutarie. Peraltro, esistono già forme di controllo sui capitali, tra cui l’obbligo per le aziende esportatrici di convertire in valuta domestica almeno un quarto dei ricavi maturati all’estero. E il piano del governo del dicembre scorso con cui i risparmi dei turchi in lire saranno remunerativi al tasso più alto tra gli interessi forniti dalla banca e la percentuale di indebolimento del cambio, aveva consentito a Erdogan di guadagnare qualche mese di tempo. Tempo sprecato nel perseguire una politica monetaria sconclusionata e che va sempre più in direzione opposta rispetto al trend globale. Siamo alla barzelletta di un paese con tassi reali negativi del -60%.