La pandemia ha parlato, ha raccontato molte cose, se non tutte, dei paesi che ha brutalmente colpito. E l’Italia ne sta uscendo con un’immagine tutt’altro che positiva. L’eroismo di medici e infermieri, molti (troppi) dei quali morti in servizio per curare i pazienti affetti da Coronavirus, non salverà la sanità italiana dal verdetto popolare che si annuncia piuttosto severo. Da settimane, si parla dei famosi 37 miliardi di euro di tagli effettuati dai vari governi nell’ultimo decennio.
Sanità italiana a confronto con la Germania sul Coronavirus, dati choc
In generale, però, non possiamo affermare che la spesa sanitaria nell’ultimo decennio sia stata tagliata, semmai che ne sia stata contenuta la crescita, in misura forse persino sconsiderata. In termini percentuali, l’Italia è passata dal 7,2% del 2010 al 6,8% del pil nel 2018. In valore assoluto, si è passati da 113,1 a 115,4 miliardi, pari a un incremento di appena il 2%. Nel frattempo, poi, la popolazione residente risulta cresciuta di quasi un milione e mezzo milione di abitanti, per cui la spesa pro-capite risulta essere rimasta stabile o, addirittura, leggermente diminuita.
Peccato che nello stesso periodo, l’inflazione cumulata nel nostro Paese sia stata del 10,3%. Questo significa che, in termini reali, è stato come se i governi avessero tagliato la spesa sanitaria di un 8% in 8 anni. E dovete tenere in considerazione che la sanità si caratterizza per prezzi mediamente in crescita più dell’inflazione generale, in conseguenza delle nuove tecnologie avanzate e costosissime che di anno in anno vengono impiegate per offrire un servizio sempre più efficace.
Dal boom della spesa ai “tagli”
Se ci allineassimo a questi altri due grandi paesi, dovremmo spendere almeno 60 miliardi in più ogni anno, qualcosa come il +3,3% del pil, stando ai dati del 2019. In sostanza, la spesa sanitaria pubblica esploderebbe sopra il 10% del pil, una percentuale insostenibile, anche perché dovremmo coprire l’extra-costo con un pari aumento delle imposte e/o tagli ad altre voci di spesa. Ma Francia e Germania spendono per la sanità pubblica rispettivamente l’8,6% e il 7,2%, in questo secondo caso solo di poco più di noi. Ecco il punto: la spesa pro-capite sanitaria tedesca è più alta di oltre il 50% che in Italia, semplicemente perché il pil in Germania risulta molto più alto, al netto del fatto che venga prodotto da una popolazione di oltre un terzo più grande della nostra.
La spesa sanitaria crebbe in Italia del 66% tra il 2000 e il 2008. Successivamente, è rimasta sostanzialmente stabile. L’esplosione nel corso dei primi anni Duemila fu dovuta solo in parte all’invecchiamento demografico, perlopiù si ricollega alla scriteriata riforma costituzionale del 2001, approvata dall’allora maggioranza di centro-sinistra, che tra le competenze ripartite tra stato e regioni includeva proprio la sanità. Le regioni spendevano e lo stato pagava. Si assistette a sprechi e inefficienze, specie al sud, dove si scoprì (con falso clamore) che in Sicilia si arrivò a pagare l’acquisto di una siringa anche cento volte che in Lombardia.
Il contenimento della spesa nacque come necessità e già prima della crisi del 2008 e dell’austerità fiscale montiana. Di quel passo, sarebbe risultata insostenibile. Negli ultimi anni, oltre al blocco degli stipendi pubblici, che ha riguardato anche il personale medico e para-medico, c’è stato il tentativo progressivo dello stato di riappropriarsi della gestione di alcuni aspetti del servizio, ma il resto lo hanno fatto i tagli veri e propri, basti guardare ai posti letto soppressi e ai numerosi piccoli ospedali chiusi senza avere potenziato i rimanenti.
Tagli posti letto sanità: diritto alla salute per tutti
Il flop del servizio sanitario
La Consip, la centrale acquisti della Pubblica Amministrazione, non è stata in grado ad oggi di garantire agli ospedali l’approvvigionamento delle mascherine, con la prima asta andata fallita. La centralizzazione ha provocato ritardi e minore efficacia del servizio, aspetti che si sono rivelati spesso fatali in piena crisi sanitaria. Più in generale, i tagli imposti da Roma ai budget regionali hanno prescisso dalle realtà specifiche, dalla domanda dei cittadini-utenti, spingendoli in molti casi a spostarsi nel privato per vedersi erogato un servizio efficiente e rapido. Servirebbe una gestione più aziendale, laddove il termine non equivale a risparmi sulla pelle dei pazienti, ma a un’offerta che riesca a soddisfare la domanda in condizioni di efficienza economica.
Ma inutile compiere ragionamenti avulsi dal contesto macroeconomico generale. L’Italia sta sotto-finanziando da anni il suo Sistema Sanitario Nazionale, considerato un suo fiore all’occhiello, perché non cresce e non riesce ad aumentare di anno in anno la ricchezza, mentre i costi salgono. A questo aspetto dirimente se ne aggiunge un altro non meno grave, ossia il corto circuito burocratico-istituzionale innescato da un sistema Paese che non si regge più in piedi, con responsabilità diffuse, che inevitabilmente danno vita a una deresponsabilizzazione generale. Tutti decidono tutto e, alla fine, nessuno è responsabile di alcunché. E’ il famoso scaricabarile, che nei fatti porta a un’immunità automatica di dirigenti e amministratori politici locali e nazionali dinnanzi anche a colpe più o meno evidenti della catena di comando.
Il clima che si sta generando con questa pandemia rischia di acuire, anziché risolvere, i problemi della sanità italiana. I cittadini giustamente lamentano i tagli, ma sarebbe sbagliato pretendere un ritorno al lassismo della spesa, che di per sé non coincide quasi mai con una maggiore efficacia del servizio. Servono più posti letto negli ospedali (non solo nelle sale di terapia intensiva), più infermieri e anche medici, più mezzi e investimenti nell’edilizia ospedaliera, di sicuro meno dirigenti e quaquaraqua. Questo richiederà almeno nei prossimi anni una maggiore spesa, ma attenti a consegnare la pecora al lupo. I politici si fregano le mani al solo pensiero di poter gestire più miliardi, specie se ne arrivassero 35-36 dal MES a tassi quasi azzerati. Ma bisogna sorvegliarne l’impiego, perché rischiamo di buttare preziosi denari al vento, andando ad ingrossare le tasche di burocrati e parassiti statali, di amministratori pubblici e le clientele politiche.