La Germania ha appena spedito il suo ministro della Difesa alla presidenza della Commissione europea, ma il traguardo a suo modo storico non viene festeggiato dai tedeschi, che vedono minacciata la loro economia più che mai in questa fase. A maggio, la produzione industriale è crollata del 3,7% su base annua e per l’ottava volta negli ultimi 12 mesi. Peggio è andata al manifatturiero, che ha registrato il -4,1%, la nona contrazione in un anno. Già nel 2018, la produzione di auto era scesa di mezzo milione di unità a 5,1 milioni e per quest’anno le immatricolazioni segnalano che il peggio dovrebbe ancora arrivare.
E cosa ancora più preoccupante per Berlino, a ripiegare sono essenzialmente i marchi nazionali, con Volkswagen ad avere segnato il -4,8% nel primo semestre, Audi il -1,9%, Mercedes e Opel il -0,9%, Porsche il -21,6%, mentre si salva Bmw con il +7,4%. Nei primi 5 mesi dell’anno, le esportazioni sono state pari a 560 miliardi, oltre 93 in più delle importazioni. A conti fatti, ancora non si notano reali effetti deprimenti per l’economia sul fronte dei mercati esteri, ma gli ordini a maggio e giugno sono precipitati rispettivamente del 5,3% e dell’8,6%. E questo sarebbe un brutto segnale per la macchina produttiva tedesca, in quanto paventerebbe un calo prossimo della produzione e delle esportazioni.
Pochi giorni fa, il colosso chimico Basf ha emesso un profit warning sul secondo trimestre, giustificando il calo atteso degli utili con la carenza di domanda proprio dal settore automobilistico, con le tensioni commerciali nel mondo e la scarsa richiesta dal comparto agricolo nordamericano. La chimica è un altro comparto chiave per l’economia tedesca e a completare il quadro fosco per quest’ultima ci sono le banche.
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L’austerità non si tocca
La Germania ha chiuso il 2018 con esportazioni per oltre 1.320 miliardi e un saldo commerciale attivo di 206 miliardi, il 6% del pil. Questo significa che le relazioni con l’estero incidono per quasi i tre quarti del pil, per cui la prima economia europea non può che risentire negativamente di questa fase di rallentamento globale, su cui incombe l’ombra dei dazi, in parte minacciati e in parte già innalzati, di Donald Trump. E proprio le auto europee (cioè, tedesche) saranno il prossimo bersaglio del presidente americano. Non a caso, l’Europa sta cercando di giocare d’anticipo con la stangata fiscale ai danni delle multinazionali USA del web, così da disporre preventivamente di un’arma di ricatto contro la Casa Bianca.
Cosa servirebbe a Berlino per schivare la recessione? Taglio delle alte tasse e potenziamento degli investimenti pubblici, dato lo stato relativamente carente delle infrastrutture in Germania. Entrambe le operazioni potrebbero compiersi senza fare debiti, visto che i conti pubblici tedeschi sono ancora in attivo di circa l’1,5% del pil. A dire il vero, l’indebitamento stesso non sarebbe un problema per i conti pubblici, in quanto il governo riesce a emettere Bund a rendimenti negativi fino alle scadenze lunghe, per cui viene pagato dal mercato per raccogliere i suoi capitali. Allo stato attuale, indebitandosi a 10 anni per 100 euro, alla scadenza restituirebbe non più di 96-98 euro, cioè meno di quanto ottenuto.
In ossequio alle regole fiscali da essa stessa pretese, la Germania con ogni probabilità vorrà ritagliarsi maggiori margini di manovra fiscale per il caso di crisi futura della sua economia, scendendo a un rapporto debito/pil ben inferiore al limite del 60% contenuto nel Patto di stabilità. Solo quando avrà centrato questo obiettivo potrebbe mostrarsi pronta a considerare una politica fiscale meno restrittiva, possibilmente sempre a deficit zero (“Schwarze Null”). Per adesso, continua a confidare nella sua potente macchina dell’export, almeno fino a un attimo prima che l’economia mondiale ripieghi vistosamente. E allora sì che userà Ursula von der Leyen come una “longa manus” per difendere il suo modello dagli attacchi da dentro e fuori l’Europa.
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