La favola di Natale Melegatti è inventata, l’incapacità dei suoi dirigenti reale

Melegatti riattiva la produzione dopo il successo della campagna di solidarietà per salvare il pandoro e i posti di lavoro. Ma più che una favola di Natale, sembra la storia di un fallimento gestionale.
7 anni fa
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La cassa integrazione sotto Natale per Melegatti è stata sventata grazie al ripristino della produzione di 5.000 dolci tra pandori e panettoni. Basterebbe questa frase, ripresa da tutta la stampa italiana, per farci capire quanto esagerata sia stata la favola prefestiva sullo stabilimento veronese di San Giovanni Lupatoto. Sfornare 5.000 dolci occuperà i 70 dipendenti fissi della storica società per un paio di giorni, dopodiché si torna allo stesso quesito di prima: e ora?

Partiamo da una premessa: che lo stabilimento sia stato in grado in appena un mese di produrre 1,575 milioni di pezzi, quando fino agli inizi di novembre ci sembrava che avremmo dovuto rassegnarci al primo Natale senza lo storico Pandoro Melegatti, un mezzo miracolo in sé lo è stato.

La campagna natalizia è andata a buon fine, nonostante sia iniziata con circa un paio di mesi di ritardo, grazie alla diffusa e sentita campagna di solidarietà, che tramite i social ha raggiunto praticamente ogni famiglia dello Stivale, da Trento a Pantelleria. Tra hashtag, appelli su Facebook e foto su Instagram, gli italiani sono riusciti a salvare uno dei gioielli dell’imprenditoria nazionale, consentendo ai 70 dipendenti, con stipendi arretrati sin dal mese di agosto, di tornare a guardare con maggiore serenità al proprio futuro e di vedersi pagato almeno il mese di novembre e il rateo sulla quattordicesima.

Se per Melegatti intendiamo i suoi prodotti, i posti di lavoro, la tradizione e il sentimento che ci lega ad essa, salvarla si può e, anzi, si deve. Se facciamo riferimento, invece, alla gestione più propriamente imprenditoriale dell’attività, difficilmente potremmo pensare di sganciare qualche euro per tenere in vita chi ha dimostrato ampiamente di non meritare tale solidarietà, specie se pensiamo che in sé, pur animata da ottime intenzioni, potrebbe essere finita per penalizzare la concorrenza, “colpevole” di avere ben gestito produzione e commercializzazione in questi anni; a meno di non immaginare che tutti coloro che hanno aderito alla campagna per pura ragione di solidarietà abbiano comprato un pandoro o un panettone a marca Melegatti senza nulla togliere agli acquisti già in programma.

(Leggi anche: Melegatti, cosa c’è dietro alla solidarietà?)

Serve ristrutturare il debito

La vera salvezza di Melegatti e dei suoi posti di lavoro passerà solo con la seconda fase, quella che inizia praticamente dopo Natale con l’avvio della campagna pasquale. Il fondo maltese Open Capital Fund e l’italiana Advam Partners sgr hanno sborsato già i primi 6 dei 16 milioni messi a disposizione per rilanciare l’azienda, ma devono sperare adesso di ristrutturare i 30 milioni di debiti, seguendo la legge fallimentare, trovando un’intesa con Banco BPM, BNL, MPS e Unicredit. Eppure, il bilancio 2015 si era chiuso per la società con un debito di 15,5 milioni, persino in calo dai 16 milioni dell’esercizio precedente, mentre la perdita annuale era di appena 188.000 euro, dimezzata rispetto al 2014. Cos’è successo da allora?

Nel tentativo di espandersi e di sganciarsi dall’eccessiva dipendenza verso i prodotti di ricorrenza, la società ha investito ben 15 milioni per aprire un nuovo stabilimento a San Martino Buon Albergo, sempre nel veronese. Obiettivo: Sfornare 35.000 nuovi croissants all’ora. Per farlo, ha raddoppiato il debito già in sé non esiguo (quasi il 30% del fatturato nel 2015), ma non stipulando nuovi finanziamenti a medio-lungo termine, come si sarebbe dovuto fare, bensì attingendo alla liquidità aziendale. Ora, siffatta operazione dovrebbe fare sbarrare gli occhi persino a uno studente iscritto al primo anno di Economia aziendale, ma evidentemente le famiglie Turco e Ronca, che gestiscono lo stabilimento dal 2007 sotto la presidenza di Emanuela Perazzoli, che è anche amministratore delegato, ritengono che si possa benissimo prosciugare la liquidità di un’azienda, privandola di ossigeno necessario e vitale per le attività a breve termine.

(Leggi anche: Melegatti, ritirata cassa integrazione: cosa succede ora?)

Incapacità gestionale palese

L’insano gesto è stato la madre di tutte le sciagure e in pochi mesi ha portato la Melegatti praticamente al fallimento: un ritardo nell’attivazione della produzione del nuovo stabilimento ha fatto venire meno i ricavi supposti, agli operai non sono stati pagati gli stipendi e ai fornitori le fatture. Conseguenza: stop alla produzione non già per crisi, essendo il riscontro del mercato sempre positivo, bensì per incapacità gestionale. Soltanto uno sprovveduto potrebbe pensare di utilizzare le linee di credito a breve e la cassa aziendale per investimenti a medio-lungo termine. Qui, sono venuti meno i principi fondamentali del buon padre di famiglia.

Per non parlare di anni di politiche di marketing a dir poco demenziali. Nel 2015, la società pubblica su Facebook un’immagine, diciamo, autolesionista, che ritrae due mani uscire da sotto le lenzuola e la scritta “Ama il tuo prossimo come te stesso … basta che sia figo e dell’altro sesso”. Inutile dirvi che il post sia stato tacciato di omofobia, da dovere essere immediatamente ritirato con tanto di scuse. Errore perdonato, nessuno lo ricorda probabilmente più. E, tuttavia, da due anni ci sorbiamo Valerio Scanu come testimonial del nuovo corso aziendale. Forse per strizzare l’occhio a quanti avevano polemizzato per il post dal presunto sapore omofobico, ma fatto sta che non ci vorrebbe uno stratega di marketing per capire che un prodotto della tradizione con l’ex cantante di Amici, peraltro con un seguito basso persino tra il pubblico dei giovanissimi, c’entri come i cavoli a colazione. Persino la riconoscibilità del prodotto è venuta meno, con la campana ad avere assunto nella serie speciale che reca l’immagine di Scanu una coloratura scura e perdendo i bordi dorati che ha sempre contraddistinto l’ottagono.

Che cosa vogliamo dire con tutto ciò? Se la campagna social per salvare Melegatti è stata persino commovente, poca compassione dovrebbe nutrirsi verso chi ha portato un marchio storico del made in Italy con i libri in tribunale e senza che alla base vi fossero ragioni di crisi, se è vero che nessuno avrebbe immaginato un epilogo così allarmante solamente all’inizio di quest’anno, quando i dirigenti festanti tagliavano il nastro dello stabilimento di San Martino Buon Albergo, con tanto di Scanu (rieccolo!) al seguito.

(Leggi anche: Natale senza Pandoro Melegatti, storico marchio rischia di scomparire)

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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