Le polemiche sul deficit-obiettivo elevato al 2,8% del pil dalla Francia – quando in Italia nemmeno un suo contenimento poco sotto il 2% soddisferebbe i mercati finanziari, tenendo conto che attualmente lo spread BTp-Bund viaggia in area 230 punti base, mentre quello della Francia si attesta sui 35 bp – stanno avendo il merito di accendere i fari sulla comparazione tra economia italiana e quella francese e sull’incomprensibile trattamento di favore di cui i titoli di stato emessi dal Tesoro parigino godrebbero da parte degli investitori.
Tra Francia e Italia lo spread è di credibilità
A dire il vero, prima di rispondere a queste domande dovremmo avere l’onestà di tornare indietro con la memoria ai primi anni dalla nascita dell’euro, quando lo spread BTp-Bund a 10 anni strinse fino a un minimo storico di una ventina di punti base. Era l’agosto del 2005, ma allora il nostro debito viaggiava sopra il 100% del pil, quello tedesco stava sotto il 70% e in Francia non arrivava al 55%. E quell’anno, l’Italia alzava il deficit sopra il 4%, conformandosi alle politiche fiscali più lassiste delle prime due economie dell’area. Dunque, c’è stato un tempo in cui noi eravamo la Francia della situazione, nel senso che siamo stati giudicati dai mercati con un favore che certamente non meritavamo in quelle proporzioni, dati i fondamentali, in scia all’euroforia.
Questo non significa che dibattere sulla questione francese oggi non abbia un senso. La caduta dal paradiso all’inferno dell’Italia è stata determinata non solo, e forse nemmeno tanto, dal deterioramento dei nostri conti pubblici.
Gli squilibri della Francia per eccesso di spesa pubblica
La Francia avrà (ancora) un debito inferiore al nostro, ma presenta alcuni fondamentali davvero preoccupanti. Se l’Italia è un’economia esportatrice e il suo fatturato all’estero supera gli acquisti dal resto del mondo della media di quasi il 3% all’anno, non così può dirsi di Parigi, che non vede un saldo attivo per la sua bilancia commerciale sin dal 2005. Nell’ultimo decennio, mediamente ha registrato un disavanzo del 3,4% del pil, cumulando passività totali per 715 miliardi di euro. A fronte di ciò, nemmeno gli afflussi di capitali sono stati sufficienti a generare l’equilibrio delle partite correnti, visto che queste ultime hanno chiuso con un saldo negativo medio dello 0,9% del pil nell’ultimo decennio. E anche in questo caso, non si vede il segno più da un quindicennio. In altre parole, la Francia esporta poco, riesce ad attirare capitali, ma non a tale punto da coprire l’ammanco commerciale.
Macron ripudia l’austerità e imita i populisti
Se non ci fosse l’euro, una situazione del genere provocherebbe un deprezzamento del franco, visto che le importazioni nette di beni e servizi superano le esportazioni nette di capitali, per cui la Francia registra una domanda netta di valuta straniera.
Tuttavia, ci sarebbe anche un possibile problema di competitività che emergerebbe dai dati sulle esportazioni. Quelle francesi si aggirano intorno a un quinto del pil, ben meno dell’oltre il 26% italiano e del 39% tedesco. Le imprese transalpine non riescono a tenere testa alla concorrenza? Può darsi, ma può anche essere che siano più concentrate di altre a soddisfare l’abbondante domanda domestica, in virtù degli squilibri di cui sopra. Dunque, la Francia non importa troppo, bensì in linea con i livelli italiani e meno della Germania. Semplicemente, esporta poco, perché le sue imprese riescono ancora a vendere e fare fatturato in patria. E se questo rende apparentemente meno drammatici i saldi commerciali, dall’altro evidenzia i rischi di una politica fiscale improntata all’austerità, che porrebbe fine alla pacchia e costringerebbe gli imprenditori a rivolgersi ai mercati internazionali per mantenere i ricavi. E una cosa è vendere un prodotto Made in France agli stessi francesi, un’altra soddisfare le preferenze dei consumatori stranieri.