La guerra al contante in India è stata un fallimento e pure controproducente

La lotta al contante in India è stato un grosso fallimento, certificato anche dalla banca centrale. L'economia sommersa e la criminalità non sono state scalfite minimamente.
6 anni fa
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Era l’8 novembre del 2016 e mentre l’America eleggeva il suo nuovo presidente, l’India annunciava un clamoroso piano per ritirare dalla circolazione le banconote da 500 e 1.000 rupie, corrispondenti allora a 6,50 e 13 dollari, emesse per un totale di 217 miliardi di dollari e pari a oltre l’80% del valore delle banconote circolanti. L’obiettivo della misura consisteva nel combattere l’economia sommersa e illegale, visto che si presupponeva che i pezzi di valore più alto fossero in mano sostanzialmente a criminali ed evasori fiscali.

La Reserve Bank of India ha pubblicato i risultati di quella operazione, trovando che ben il 99,3% delle banconote ritirate è stato depositato in banca. In sostanza, la guerra al contante si è rivelata un fallimento totale. Due le cose: o non era vero che gli evasori fiscali e i criminali possedessero i tagli di maggiore valore in misura superiore alla media o hanno funzionato gli schemi messi in campo per dribblare i controlli.

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In effetti, sembra che abbiano funzionato proprio questi ultimi. All’indomani dall’annuncio, per le strade delle città indiane si registravano scambi più o meno alla luce del sole, in base ai quali i detentori di numerose banconote messe fuori corso le vendevano a sconto a terzi, i quali hanno potuto presentarle in banca per farsele scambiare con le banconote di nuova emissione senza superare i limiti massimi delle 250.000 rupie (3.500 dollari), oltre i quali sarebbero scattate le segnalazioni al fisco. In questo modo, nessun attacco vero e proprio all’economia sommersa ha avuto efficacia, semmai parte minima di tale ricchezza accumulata illegalmente ha potuto fluire verso le classi sociali più disagiate.

Duro colpo all’economia indiana

Tuttavia, l’esito dell’operazione è stato negativo per l’economia indiana, stimato in una minore crescita del pil dell’1,5%, pari a 2.250 miliardi di rupie, pari a 32 miliardi di dollari al cambio attuale, che ha toccato in queste ore il minimo storico contro il biglietto verde a quota 70,93, segnando un deprezzamento per quest’anno dell’11%.

A indebolire la rupia sarebbe l’aumento delle quotazioni del petrolio. Nuova Delhi dipende dall’estero per il suo approvvigionamento energetico e una lievitazione dei relativi costi sta finendo per aggravare il deficit delle partite correnti, già schizzato dallo 0,7% del 2016 all’1,9% del 2017, seppure molto più basso del record del 4,8% toccato nel 2012, a seguito del quale il precedente governo introdusse restrizioni alle importazioni di oro.

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Ben 150.000 lavoratori avrebbero perso un reddito di sussistenza per svariate settimane, a causa della “demonetizzazione” voluta dal governo, senza che si sia registrata, peraltro, una sostanziale crescita delle transazioni digitali, come auspicava e continua ad auspicare il premier conservatore Narendra Modi. In effetti, il valore del contante in circolazione in India è cresciuto nel 2017 del 37,7% rispetto all’anno precedente, segno che tutto sarebbe accaduto, tranne che famiglie e imprese abbiano iniziato a fare meno uso del cash. Un bel colpo per il governo, che credeva inizialmente che non più del 60% delle banconote messe fuori corso sarebbe stato portato in banca. In altre parole, Modi e il suo ministro delle Finanze, Arun Jaitley, puntavano a colpire almeno il 40% della presunta ricchezza illecita, potendo esibire solo un imbarazzante 0,7%.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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