La minaccia al commercio mondiale viene dalle banche centrali
Non è finita: le accuse contro Cina e Germania di manipolare i tassi di cambio sono certamente state incrementate anche nei toni dall’attuale presidente, ma è sin dall’amministrazione Bush nel 2005 che Pechino si trova nel banco degli imputati per Washington e già da un paio di anni il Tesoro USA, nella relazione semestrale sui cambi, valuta l’euro debole per la Germania, inserendo quest’ultima tra i “manipolatori delle valute”.
La temuta guerra commerciale ha radici ben più lontane di quelle che si vorrebbe fare credere per ragioni di comodo.
Trump non è un alieno, è stato mandato dove oggi si trova dagli elettori americani, proprio in difesa degli interessi nazionali, avendo questi percepito come tutte le principali economie stiano adottando misure protezionistiche velate da altri scopi (lotta all’inflazione, alla disoccupazione, tutela dei consumatori, dell’ambiente, etc.). I dazi sono l’altra faccia delle barriere non tariffarie erette dall’Europa contro le merci prodotte al di fuori di esse. Piaccia o meno, l’Europa si fa interprete ipocrita del libero commercio, dopo averlo osteggiato per anni, chiudendo a ogni accordo di rilievo con gli USA per ragioni di consenso spicciolo nelle sue principali economie: Francia e Germania. (Leggi anche: Commercio mondiale, timore resta la guerra valutaria)