La polemica sugli stipendi dei manager delle grandi società e banche continua a fare parlare in varie parti del mondo. Se a Londra è stata ringalluzzita dalla volontà espressa dalla premier Theresa May, al suo ingresso a Downing Street di 16 mesi fa, di perseguire una maggiore trasparenza nelle politiche dei compensi, assegnando maggiori poteri agli azionisti e rendendo pubbliche le entità degli emolumenti, il dibattito si surriscalda stavolta per la Norvegia. L’economia scandinava di appena 5 milioni di abitanti dispone del più grande fondo sovrano al mondo, i cui assets valgono 1.000 miliardi di dollari, il doppio di appena 5 anni fa.
In pratica, il fondo sovrano norvegese è azionista di un po’ tutte le società quotate nelle borse del pianeta e di conseguenze ne influenza le scelte decisionali, pur nei limiti del peso relativamente basso di cui gode in esse. Ebbene, la sua global head of ownership strategies, Carine Smith Ihenacho, ha dichiarato a Bloomberg che il fondo ha votato quest’anno contro la maggioranza delle proposte di remunerazioni dei manager nelle società in cui siede nei board, tra cui Alphabet (società controllante Google), la petrolifera Noble Corp e quella dei media Liberty Global Plc.
Secondo le linee guida pubblicate in un report di aprile, il fondo persegue politiche di remunerazione dei manager, basate sulla corresponsione di azioni bloccate da 5 a 10 anni (preferibilmente per 10 anni), quelle che in gergo vengono definite le “stock options”, nonché sulla trasparenza e qualsiasi altra policy improntata alla creazione di valore nel lungo periodo, in modo da allineare gli interessi dei soci a quelli dei dirigenti. Per questo, ad esempio, i benefits previdenziali dovrebbero essere limitati a “una parte minima” dei pacchetti di incentivi erogati.
Fondi sovrani rischiano di far deragliare il capitalismo?
Senonché, questi annunci stanno scuotendo il mondo finanziario globale, perché trattandosi di un player di dimensioni enormi, in molti temono che il fondo norvegese finisca per influenzare in una certa direzione gli stipendi dei manager. In qualità di azionista, è evidente come esso ne abbia tutto il diritto, ma Bloomberg esternava ieri le sue preoccupazioni con un articolo a firma Mark Gilbert, il quale metteva in dubbio che un ente nelle mani di uno stato si mostri in grado di influenzare le politiche retributive in altri stati, quando queste dovrebbero essere dibattute dalle singole società.
Il pezzo in sé (leggi qui: Norway $1 Trillion Gorilla Shouldn’t Set You Pay) appare abbastanza criticabile, perché se il fondo risulta azionista di 9.000 società quotate, non si vede perché mai non possa esercitarne i relativi diritti, in relazione al peso in ciascuna di esse. Che abbia un’unica linea in ogni società partecipata non contrasta certo con i cardini del libero mercato. D’altra parte, già oggi esso decide di investire solo in società eticamente compatibili con le proprie linee guida, ovvero che non operino nel campo delle armi, del tabacco e di recente la controllante banca centrale di Oslo ha annunciato, addirittura, di voler far sì che si ritiri dallo stesso settore petrolifero, che è quello dalle cui entrate viene alimentato il suo patrimonio. (Leggi anche: La Norvegia colpisce il petrolio saudita con l’annuncio shock di ieri)
Semmai, l’articolo di Bloomberg si mostra preoccupato tra le righe, ma non troppo, della possibilità che un governo, disponendo di un braccio finanziario, influenzi le regole del mercato nel resto del mondo. In sostanza, quello che conosciamo come capitalismo finanziario potrebbe presto essere soggetto a decisioni tipiche della sfera politica e improntate più a un certo moralismo che non rispondente alle consuete logiche del mercato, ovvero di domanda e offerta.