Con ogni probabilità, il governo Draghi eserciterà la delega fiscale per approvare la riforma del catasto subito dopo le elezioni amministrative. Il tema è molto divisivo. Il centro-destra osteggia la revisione dei valori catastali, mentre il centro-sinistra la auspica. Di cosa parliamo? L’IMU, l’imposta di registro quando a vendere non fosse il costruttore, l’imposta ipotecaria e catastale per i casi di successione e donazione, l’IRPEF sulla seconda casa sfitta e sita nel comune in cui il proprietario ha la residenza, nonché per il calcolo dell’ISEE sono usati i valori catastali al fine di determinare il valore dell’immobile o il reddito da questi prodotto.
Per reddito non intendiamo un’effettiva entrata di denaro nelle tasche dei proprietari. Il legislatore suppone, ad esempio, che il solo possesso di un immobile faccia risparmiare il costo dell’affitto e di fatto tassa questo risparmio. Un’astrusità fiscale, insomma. Tornando alla riforma del catasto, essa punta ad aggiornare i valori catastali, allineandoli il più possibile a quelli di mercato. Si stima che oggigiorno in media i primi risultino più che dimezzati rispetto ai secondi. In effetti, sono rimasti bloccati alla fine degli anni Novanta, prima che entrasse in vigore l’ICI, vecchio nome dell’IMU.
L’aggiornamento avverrebbe anche grazie al passaggio tra le stime basate sul numero dei vani a quelle impostate sui metri quadrati. Chiunque sa oggi che la determinazione del valore di un immobile passa per il computo della superficie, mentre i vani non si usano più da svariati decenni. Anche perché essi non sono indicativi di alcuna superficie certa. Il governo rassicura che la riforma del catasto avverrebbe a gettito invariato. Se anche fosse vero, ciò sarebbe per lo stato, non per i singoli contribuenti. Quelli che oggi sono proprietari di un immobile cresciuto di valore negli ultimi 30 anni, saranno chiamati a pagare di più di IMU e le altre suddette imposte.
Riforma catasto, perché lo stato si accanisce contro le case
In generale, i contribuenti rischiano di pagare di più anche nel caso in cui lo stato riducesse su base nazionale e proporzionalmente le aliquote IMU, ipotecarie, catastali, etc. E l’aspetto più fastidioso di tale esito consiste nel fatto che già oggi le case in Italia risultino tra le più tartassate al mondo. Gli immobili esitano nel complesso un gettito di 24 miliardi di euro all’anno, secondi solo alla Francia in rapporto al PIL tra i grandi paesi UE. Non solo: rispetto ad altre forme di investimento, sono a tutti gli effetti molto più tartassati.
Volete un esempio? Immaginate di possedere una seconda abitazione dal valore catastale di 100.000 euro e di mercato di 200.000 euro. Su di essa paghereste annualmente un’IMU tra non meno di 760 euro e un massimo di 1.060 euro. Tuttavia, sulla stessa somma (ai valori di mercato) investita in titoli finanziari (azioni, obbligazioni, quote di fondi, etc.), l’imposta di bollo gravante sarebbe di 400 euro, cioè lo 0,2% su 200.000 euro. Parliamo di una cifra pari a poco più di un quarto del minimo e meno di un quinto del massimo sborsato per l’IMU.
Per quale ragione logica il legislatore dovrebbe preferire tassare di più un immobile, anziché altre forme di investimento? In apparenza, nessuna. All’atto pratico, una ragione esiste e ha a che fare con il fatto che se stanghi troppo i capitali, questi ormai fuggono con un clic del mouse, mentre un immobile per definizione non può essere spostato altrove. E’ il motivo per cui tendenzialmente l’IMU esiste in misura non indifferente negli stati con accentuato federalismo fiscale: consente agli enti locali di attingere a una fonte di gettito senza il rischio di perdere contribuenti a favore di altri enti concorrenti.