Il faccia a faccia tra il presidente americano Donald Trump e quello russo Vladimir Putin a Helsinki, Finlandia, si è lasciato dietro un enorme vespaio di polemiche, tanto che il primo è stato costretto a cambiare formalmente la sua posizione in maniera radicale, accettando le conclusioni dei servizi segreti USA con riguardo alle interferenze accertate della Russia nelle elezioni presidenziali di due anni fa. I dati del Tesoro americano quasi gettano benzina sul fuoco, quando trovano che il Cremlino sarebbe tutt’altro che amico dell’amministrazione Trump, se è vero che la banca centrale di Mosca ha ridotto in appena due mesi le detenzioni di Treasuries da un controvalore di 96,1 miliardi a marzo a uno di appena 14,9 miliardi al 31 maggio scorso.
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Si tratterebbe di una ritorsione (legittima) della Russia al rinnovo delle sanzioni deciso dall’amministrazione Trump, che pur mostrandosi di gran lunga più aperta a Putin rispetto al governo precedente, nei fatti non ha ancora cambiato musica, anche perché al Congresso la linea morbida non passa nemmeno tra le file della maggioranza repubblicana. Sembrano lontani i tempi, quando la Russia arrivò a detenere ben 175,7 miliardi di dollari in titoli a stelle e strisce. Eravamo nel luglio del 2010 e l’annessione russa della Crimea, avvenuta nel 2014, non era nemmeno pensabile. Da quel momento, le relazioni diplomatiche tra Mosca da una parte e Washington e Bruxelles dall’altra sono scadute ai minimi termini, tornando ai livelli della Guerra Fredda.
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Eppure, tanta fuga dai Treasuries non si è tradotta in dramma per questi titoli, il cui rendimento è sì salito nel bimestre interessato dal 2,74% al 2,86%, pur raggiungendo l’apice del 3,11% a maggio, ma senza che ciò abbia scatenato vendite ancora più massicce da parte degli altri investitori.
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Come mai la ritorsione di Putin non ha avuto successo? Anzitutto, perché il mercato dei Treasuries vale sui 15.000 miliardi di dollari, il più liquido al mondo. Gli 80 miliardi di disinvestimenti russi incidono per qualcosa come lo 0,5%, una quantità assorbibile dal resto del mercato, specie in una fase nella quale i rendimenti offerti da tutte le altre economie concorrenti siano di gran lunga più bassi. Un decennale americano offre ancora fino a 10 volte in più di un omologo tedesco e in Giappone non si va oltre qualche punto base. Tant’è che dopo avere toccato il picco dal 2014, il suo rendimento ha ripreso a scendere, in concomitanza non casuale con il rafforzamento del dollaro, che nel frattempo ha guadagnato oltre il 7,5% in meno di tre mesi, il segno che i capitali stanno affluendo negli USA, grazie anche alla solidità dell’economia americana.