La Primavera Araba nacque qui. Era il 2010 e un venditore ambulante si dà fuoco per protestare contro la richiesta di una mazzetta da parte della polizia per il dissequestro del furgone con cui lavorava. Muore dopo settimane di agonia in ospedale. La gente scende in strada per solidarizzare con la vittima ed esternare tutta la propria frustrazione per la corruzione diffusa e l’assenza di prospettive di vita, specie per i giovani. Fu la fine della dittatura di Ben Alì, che durava sin dal 1987.
Domenica sera, questo ciclo è finito. Il presidente Kais Saied ha licenziato il premier Hichem Mechichi, esautorato governo e Parlamento e sospeso l’immunità dei deputati. Al contempo, sono stati ritirati i passaporti di molti politici. Il tutto, dopo che i tunisini erano tornato a protestate rumorosamente contro l’esecutivo, accusando il partito islamista Ennahda di avere fatto scivolare il paese nella miseria. Una vicenda, che ricorda la rivolta degli egiziani contro il presidente Mohamed Morsi, leader dei Fratelli Mussulmani, nel 2013.
Il fallimento della Primavera Araba
Le cause di questa rivolta popolare sono le stesse che portarono alla nascita della Primavera Araba. L’economia tunisina non ha compiuto alcun passo in avanti. Tra il 2011 e il 2019, risulta cresciuta alla media dell’1,5% secondo la Banca Mondiale. Nel 2020, la pandemia ha “bruciato” l’8,9% del PIL. In termini pro-capite, la ricchezza oggi è del 20% più bassa del 2010, prima della fine della dittatura. E considerando a parità di potere di acquisto, resta comunque inferiore ai livelli precedenti alla Primavera Araba.
Nel frattempo, la disoccupazione si aggira al 18% e tra i giovani si attesta su livelli doppi. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata probabilmente la cattiva gestione della pandemia. Vaccinazioni a rilento (solo l’8% della popolazione è immunizzato contro il Covid e il 22% è coperto da almeno una dose), contagi in drastica risalita, così come anche il numero dei morti.