Era il 15 luglio del 2016 quando alcuni reparti militari tentano il golpe contro il presidente Recep Tayyip Erdogan in Turchia. Poche ore dopo, il colpo di stato fallisce. La repressione del governo è massiccia e bruta. Saranno diverse migliaia gli incarcerati. A distanza di sei anni esatti, il potere del “sultano” appare, però, meno saldo che mai. E non c’entrano le minacce dei militari. Quell’estate segnò un cambio di rotta deciso di Ankara riguardo sia alle politiche economiche da implementare per sviluppare la Turchia, sia ai rapporti con l’Europa.
Di cose sul piano politico ne sono accadute in questi anni. La Turchia è diventata una repubblica presidenziale, il partito islamico-moderato di Erdogan (AKP) ha perso la maggioranza assoluta dei seggi ed è stato costretto ad allearsi con i nazionali dell’MHP. Alle elezioni amministrative, il suo partito ha perso la guida del comune di Istanbul a favore di un candidato del CHP, i laici kemalisti. E con gli USA le relazioni sono diventate tesissime, mentre si è registrato un allarmante avvicinamento con la Russia di Vladimir Putin e l’Iran dell’ayatollah Khameini.
Crisi della lira turca
Sul piano economico, Erdogan dopo il fallito golpe si convinse che fosse arrivata l’ora di fare a modo suo in politica monetaria. Basta alti tassi d’interesse. L’inflazione la si combatte abbassandoli, il contrario di quanto sostiene la teoria economica ufficiale. E così, se i tassi fino ad allora erano fissati intorno ai livelli d’inflazione, da quel momento avviene il divorzio. In termini reali, cadono progressivamente fino a scatenare una prima crisi finanziaria nel 2018.
Un’altra crisi del cambio si abbatte sulla lira turca, che in un anno perde il 44% del valore contro il dollaro. Stavolta, però, Erdogan non torna indietro. Si mostra disponibile a tollerare qualsiasi costo la sua visione comporti, tanto a pagarne il prezzo sono le famiglie. E così, l’inflazione a giugno esplode a quasi l’80%, livello massimo dal 1998. Dal fallito golpe, il cambio perde l’83% e i prezzi al consumo sono schizzati del 250%. Nel frattempo, i rendimenti a 10 anni sono raddoppiati dal 9,5% al 19% e il PIL pro-capite a parità di potere d’acquisto tra il 2016 e il 2021 è cresciuto del 15%.
Rielezione a rischio per Erdogan
Il carovita rappresenta il più temibile avversario di Erdogan in questa fase. Alle elezioni del prossimo anno, il capo dello stato rischia di perdere la rielezione e la maggioranza parlamentare. L’unico suo punto di forza consiste nell’assenza di un vero candidato unitario delle forze di opposizione. Ma di quella Turchia liberale del primo decennio erdoganiano non resta quasi nulla. Con Bruxelles praticamente il dialogo è tra sordi. In questi mesi, tuttavia, Erdogan sta giocandosi la carta del mediatore tra Russia e Ucraina per recuperare consenso interno e prestigio internazionale. In assenza di alternative più credibili, tanto basta per il momento all’Occidente.
Erdogan vuole trasformare la Turchia in una piccola Cina alle porte d’Europa. E ciò dovrà avvenire uccidendo la lira turca per stimolare la produzione nazionale e le esportazioni. Ad oggi, non sta avvenendo. Anzi, la bilancia commerciale è sprofondata nel rosso più scuro, a causa del boom dei prezzi di petrolio e gas. Il turismo probabilmente sta offrendo un minimo sollievo alle partite correnti questa estate, ma resta il fatto che il cambio abbia perso contro il dollaro un altro 20% da inizio anno.