Questa sera, alle ore 20.00, la TV pubblica francese manderà in onda il discordo del presidente Emmanuel Macron alla nazione. Sarà un momento cruciale per le sorti del giovane capo dello stato, da settimane sotto massima pressione per via della rabbia popolare capitanata dai “gilet gialli”, il movimento trasversale nato sull’onda delle proteste contro l’aumento annunciato e sospeso delle accise sul carburante. L’inquilino dell’Eliseo non si fa vedere e né sentire dal 5 dicembre scorso, prova della forte tensione politica e del crollo d’immagine accusato negli ultimi mesi, accelerato in estate con lo scandalo Benalla.
Sembra passato un secolo da quando l’enfant prodige della politica francese riempiva le copertine di quotidiani e riviste internazionali, che ne lanciavano l’immagine di “nuovo leader d’Europa”. Eppure, sono passati appena 12 mesi, forse anche meno. La sorte sembra avere voltato le spalle a Macron, così come nello stesso frangente ha trasformato la cancelliera Angela Merkel da leader indiscussa di una Unione Europea altrimenti allo sbando, a personaggio inviso, in declino e corresponsabile proprio della crisi del progetto europeo. I popoli, si sa, quando si rivoltano contro le loro élites passano dall’osannarle al maledirle. Detto ciò, i germi della crisi politica di Macron sono stati gli stessi che ne hanno favorito la fulminea vittoria un anno e mezzo fa. E la pista porta a Berlino.
Italia vittima del bullismo di Merkel e Macron, ma Germania e Francia mettono in crisi l’euro
Dalla crisi della Grecia
Frau Merkel passerà probabilmente alla storia come la donna che più potere ebbe nel Vecchio Continente per oltre un decennio e nel pieno della crisi dell’euro, sprecandolo in maniera inopinata per il carattere pavido, ottuso e cinico che ne ha caratterizzato la leadership.
La crisi greca fu utilizzata dai tedeschi per colpire Atene ed educare il resto dell’unione monetaria, nonché per fungere da esperimento sul debito sovrano. Cosa chiedono e ottengono, infatti? L’introduzione delle “CACs”, le clausole di azione collettiva, prendendo a spunto proprio dall'”haircut” ellenico del 2012: gli stati emetteranno dal 2013 titoli sottoposti a una legislazione più flessibile sui termini di una possibile ristrutturazione, ivi compresa la possibilità di tagliare il valore nominale dei bond, di allungare le scadenze, di rinviare il pagamento delle cedole e di effettuare i pagamenti in valuta diversa da quella di emissione. L’obiettivo sembra chiaro: consentire ai governi maggiore raggio d’azione nel caso di bisogno. Nulla di errato in sé, ma di certo ai mercati è sembrato che la Germania si stesse preparando a gestire default multipli nell’area e nell’estate del 2012 l’euro arrivò quasi a scomparire sulla tempesta finanziaria contro tutta la periferia, Italia compresa.
Debito pubblico: ristrutturazione possibile con le CACs, ecco cosa rischia l’investitore in BTP
I grandi “mostri” da riformare: Italia e Francia
L’anno dopo, il laboratorio si spostava a Cipro, dove il “bail-in” veniva messo in atto prima ancora che fosse concepito per entrare in vigore nel 2016. Le banche vengono aiutate dalla Troika (UE, BCE e FMI), ma dietro il coinvolgimento nelle perdite di azionisti, obbligazionisti e persino correntisti sopra i 100.000 euro. La tagliola su questi ultimi arriva a oltre l’80%. Cosa hanno in comune Grecia e Cipro? Sono economie relativamente piccole, politicamente deboli e nel caso qualcosa andasse storto, Bruxelles avrebbe come rimediare senza intaccare la fiducia nel resto dell’area. Sappiamo che le cose non sono andate esattamente in questo modo, per quanto sia vero che le convulsioni di questi due stati non abbiano contagiato mortalmente gli altri anelli deboli della catena, ma grazie all’intervento della BCE, non per altro.
L’Europa verso il modello Cipro
Agli occhi della Germania, però, restavano e restano tutt’ora due le economie da riformare: Italia e Francia. Roma si mostra facile bersaglio negli ultimi mesi del governo Berlusconi. La maggioranza parlamentare che sosteneva il Cavaliere si era sfilacciata per dinamiche tutte interne e la crisi di credibilità del premier era aggravata da scandali personali. Bastò l’esplosione dello spread nell’autunno del 2011 a mandare a casa il centro-destra, rimpiazzato dal governo tecnico di Mario Monti, economista stimato e illustre, già commissario alla Concorrenza e che nel dicembre di quell’anno varava un decreto lacrime e sangue, ironicamente (a posteriori) soprannominato “Salva Italia”, che conteneva alcuni cardini delle vedute tedesche: tagli alla spesa pubblica, accetta sulle pensioni e liberalizzazioni.
La scommessa perduta di Macron
L’esperimento italiano si mostra ben più arduo da gestire, perché il laboratorio è grande e sin dal 2013 il malcontento popolare sfugge di mano agli “scienziati”, portando il Movimento 5 Stelle in Parlamento come formazione più eletta, pur sprovvista di maggioranza assoluta per governare.
Messi sotto scacco Grecia e parzialmente l’Italia, sembrava che il sogno tedesco di una completa “germanizzazione” dell’Europa si fosse realizzato. Invece, sul più bello a svegliarsi sono proprio i tedeschi, che si stancano della loro amata cancelliera, rea di avere spalancato le porte a un milione di profughi in pochi mesi, alimentando problemi enormi di sicurezza e di integrazione. Il passo falso di Mutti si rivela fatale non solo per la diretta interessata, bensì per il disegno egemone della Germania, giacché a farne le spese sono anche coloro che dall’esterno si erano legati alla figura della cancelliera, confidandovi per la realizzazione dell’agenda politica europeista. Per uno scherzo del destino, il declino di Macron inizia subito dopo il suo ingresso all’Eliseo e non solo e non tanto per le sue gaffe e l’assenza di una benché minima empatia. Già nel settembre dello scorso anno, Berlino entrava in fibrillazione politica con il peggiore risultato elettorale dalla Seconda Guerra Mondiale accusato da entrambi i due principali schieramenti, mentre gli euro-scettici entravano al Bundestag come terza formazione più numerosa.
Macron, che per quanto spocchioso possa apparire non è uno sprovveduto, aveva investito tutto il suo capitale politico su due direttrici tra di loro collegate e che, anzi, avrebbero dovuto camminare assieme: riforme economiche, pur impopolari nel breve, come il taglio della spesa pubblica, le liberalizzazioni, la flessibilità del lavoro e le privatizzazioni; riforma dell’Eurozona e delle istituzioni comunitarie, come la creazione di un ministro delle Finanze unico e di un bilancio comune nell’area. In pratica, egli faceva affidamento sulla maggiore integrazione politica nell’Eurozona, tale da creare le condizioni esterne adatte per mettere in sicurezza l’euro e istituire meccanismi di trasferimento quasi automatici della ricchezza, per quanto contrappesati da una politica fiscale dei governi responsabile e vigilata da Bruxelles.
I gilet gialli segnano il declino di Macron e della tecnocrazia europea
Fallito pure l’esperimento francese
Il presidente francese è consapevole che l’economia del suo paese non sia affatto solida come lascerebbero supporre i rating e i rendimenti sovrani. Il suo debito privato è altissimo, pari al 310% del pil, al 250% al netto di quello bancario. Insieme al pubblico, fa qualcosa come fino il 400%, circa 50 punti in più dell’Italia. Perché è un problema? Esso segnala che l’economia francese sarebbe oggi la più esposta di tutta l’area al rialzo dei tassi. Vero che il governo beneficia di tassi corrisposti ai creditori bassissimi e di poco superiori a quelli tedeschi, ma i debiti dei privati rischiano di diventare ben più onerosi con la stretta della BCE, dopo che le società transalpine sono state le maggiori beneficiarie del “quantitative easing”, pesando per un quinto degli acquisti complessivi di corporate bond e, quindi, potendo rifinanziare i loro debiti a costi infimi. La pacchia, però, sta finendo e la rabbia dei gilet gialli simboleggia le paure delle famiglie e delle piccole imprese, finanziariamente tutt’altro che solide e resilienti agli stress.
Il punto è proprio questo, che Macron non gode più di alcuna copertura tedesca sulle riforme dell’euro, in quanto la Germania non è più un grado di prendere buono per nessuno, essendo entrata in crisi politica. Se per Berlino era inaccettabile una mutualizzazione dei rischi fino a qualche tempo fa, adesso appare impossibile propinarla ai tedeschi, in rivolta contro il loro governo per la sua “benevolenza” verso gli stati spendaccioni del sud. Dunque, il presidente francese dovrà portare avanti il calendario delle riforme interne senza più quel supporto previsto dell’alleato principale, che gli garantiva uno scudo sui mercati e sul piano politico per bilanciare l’eventualità impopolarità. Anzi, la vicinanza d’immagine con Frau Merkel si sta rivelando devastante da ogni punto di vista, persino nella stessa Germania, dove analisti, politici di ogni schieramento e pubblica opinione non vedono l’ora di sbarazzarsi della cancelliera. E così, dopo l’esperimento del tutto fallito con l’Italia, anche la cavia francese si sta rivoltando contro Dr Frankenstein. Il rischio per Berlino è che il virus sia uscito fuori dal laboratorio e abbia già iniziato a contaminare tutto senza che fosse stato studiato a suo tempo un antidoto efficace.
La Francia di Macron deve tenersi stretta i mercati finanziari e l’euro più dell’Italia