Anche la Spagna ha il suo bel da fare per ottenere i 140 miliardi di euro con il Recovery Fund, di cui fino a 72 miliardi saranno sussidi. Il governo socialista di Pedro Sanchez ha messo a punto una riforma delle pensioni, che mira a rendere il sistema previdenziale nazionale più sostenibile. Il ministro del Welfare, José Luis Escrivà, ha annunciato l’avvio entro l’anno di un pilastro privato, il cui obiettivo consiste nel consentire al maggior numero dei lavoratori spagnoli di optare per un piano di previdenza integrativa a condizioni di favore.
Il modello di riferimento è il NEST (National Employment Savings Trust) del Regno Unito, ma con una grossa differenza: le adesioni dei lavoratori in Spagna saranno su base volontaria, cioè servirà esplicitamente la loro firma per l’iscrizione. Nel sistema britannico, l’iscrizione al NEST è, invece, automatica. In sintesi, ai lavoratori verrà offerto un piano pensionistico privato, che andrà ad affiancarsi a quello pubblico e che si caratterizzerà per commissioni contingentate e incentivi fiscali. Da qui ai prossimi mesi, i funzionari del governo si metteranno al lavoro per raccogliere le adesioni allo schema da parte dei fondi pensione.
Podemos, l’alleato della sinistra radicale dei socialisti, resta contrario e teme che questa riforma porti all’indebolimento del sistema pubblico. Escrivà ha rassicurato, sostenendo che sarà semplicemente un modo per ampliare la platea dei futuri beneficiari degli assegni integrativi, i quali fino ad oggi sono quasi un’esclusiva dei lavoratori ad alto reddito. Le divergenze nel governo restano anche su altri aspetti della riforma. Da quest’anno, ad esempio, l’età pensionabile in Spagna è salita da 65 a 66 anni e, in teoria, dovrà tendere a 67 anni entro il 2027. I socialisti vorrebbero rivedere anche il sistema di calcolo delle pensioni, allungando da 25 a 35 anni il numero degli anni di contribuzione a cui gli assegni verranno legati.
L’Europa risparmia poco per la pensione
Tornando alla previdenza integrativa, la Spagna segnala di averne abbastanza bisogno. Ad oggi, gli assets accantonati dai suoi cittadini a fini pensionistici ammontano ad appena il 12,5% del PIL, ben meno dell’82,3% della media OCSE. Tuttavia, fanno peggio Francia, Italia e Germania. Gli italiani, ad esempio, non arrivano al 10%, mentre i tedeschi si fermano poco sotto il 7%. Nel Regno Unito si sale, invece, al 104%, mentre negli USA si arriva a quasi il 135%.
Il tema non è ininfluente per i conti pubblici, perché secondo le stime dell’OCSE al 2050 la Spagna dovrebbe spendere il 13,9% del PIL per le pensioni, nettamente sopra la media del 9,4% nell’area. La percentuale sarebbe in linea con quella della Francia, superiore al 12,2% della Germania e più bassa di quasi il 17% dell’Italia, anche se nel nostro caso rimarrebbe sostanzialmente invariata rispetto ai livelli attuali già elevatissimi.
Dunque, in generale tutti i lavoratori europei starebbero risparmiando poco per tutelarsi durante la vecchiaia, almeno stando agli appositi schemi pensionistici. Un grosso problema, in vista dell’invecchiamento progressivo della popolazione, che sarà accompagnato da una denatalità preoccupante. Nei prossimi decenni, insomma, ci saranno sempre più pensionati e sempre meno lavoratori che pagheranno i contributi per mantenerli. Ma si fa presto a dire previdenza integrativa. Prendiamo l’Italia. Già da decenni paghiamo un terzo della retribuzione lorda (32,7%) per i soli contributi INPS. A ciò si aggiunge una pressione fiscale altissima con le aliquote IRPEF.
Fondo pensione INPS: cosa buona affidare la previdenza integrativa all’istituto?