L’accordo storico russo-saudita sul petrolio non basta, ecco perché i prezzi scendono

L'offerta di petrolio per i prossimi due mesi sarà tagliata del 10% dei livelli mondiali, ma al mercato sembra una soluzione insufficiente e le quotazioni tornano a scendere. Vediamo perché.
5 anni fa
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Accordo raggiunto tra i membri del cosiddetto OPEC+, il cartello guidato dall’Arabia Saudita, a cui dall’esterno si è aggiunta la Russia. La produzione di petrolio verrà tagliata di 10 milioni di barili al giorno per i mesi di maggio e giugno, di 8 milioni per i mesi successivi e fino alla fine dell’anno. Il taglio potrà essere aumentato di altri 5 milioni di barili al giorno al vertice del G20 di stasera. Alla notizia, le quotazioni di Brent e WTI sono tornate in calo.

Questa mattina, il primo perdeva intorno al 2,50%, scendendo a 32 dollari, il secondo registrava un tonfo di ben il 6,50% sotto 23,50 dollari. Rispetto ai minimi dal 2002 toccati a fine marzo, il balzo c’è stato. Pensate solo che un barile di Brent era arrivato ad essere venduto per meno di 22 dollari. I guadagni, però, rischiano di essere erosi con il passare dei giorni proprio dalla delusione che si respira sul mercato per i termini dell’accordo.

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Il taglio di 10 milioni di barili al giorno equivale al 10% dell’offerta mondiale. Fino a poche settimane fa, appariva semplicemente impensabile ipotizzarlo. Tuttavia, gli analisti stimano che nel solo mese di aprile, quando ancora l’accordo non sarà in vigore e la produzione complessiva resterà grosso modo invariata, la domanda di greggio scenderebbe di un quarto del totale, cioè di qualcosa come 25 milioni di barili al giorno. Nella media del secondo trimestre, invece, il tonfo sarebbe mediamente di 14 milioni. Dunque, il grosso sacrificio di russi e sauditi non basterebbe minimamente a riportare il mercato in equilibrio e a sostenere i prezzi.

E ci sono anche alcuni punti critici. Ad esempio, il Messico ha sottoscritto l’intesa “a certe condizioni”, mostrandosi indisposto all’idea di dover ridurre la propria offerta giornaliera di 400.000 barili.

E l’Iraq? Baghdad di solito non ottempera alle condizioni fissate in sede OPEC ed estrae tutto il greggio di cui ha bisogno per incassare dollari sui mercati internazionali. Farà così anche stavolta? E resta l’incognita americana. L’industria dello “shale” finora non ha indietreggiato, restando sui massimi record di produzione. A Cushing, in Oklahoma, principale area estrattiva negli USA, i serbatoi stanno esaurendo lo spazio disponibile per lo stoccaggio e ciò accresce enormemente la pressione sui prezzi.

La situazione di Russia e Arabia Saudita

Proprio l’amministrazione Trump aveva preteso che sauditi e russi concordassero un taglio dell’offerta, minacciando altrimenti l’imposizione di dazi sulle importazioni di greggio. L’America non ha partecipato all’accordo, in quanto la sua industria petrolifera è totalmente privata e segue criteri di mercato per fissare le quantità da estrarre, contrariamente alle logiche di Riad e Mosca, dove il greggio è in mano allo stato. L’intesa di ieri, quindi, avrebbe avuto il solo senso di impedire un ulteriore collasso delle quotazioni verso i 10 dollari, forse anche meno. Difficile, però, che nel breve riesca a sostenerle su livelli significativamente maggiori a quelli attuali.

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Ma i sauditi, in particolare, non possono permettersi un flop. Dopo avere tagliato l’offerta quotidiana per circa 3,5 milioni di barili, a causa del cambio fisso contro il dollaro devono sperare che le quotazioni assorbano almeno gran parte delle minori esportazioni, altrimenti subiranno un semplice crollo delle entrate di valuta americana e di gettito fiscale. E per quanto dispongano di 500 miliardi di dollari di riserve valutarie, la pressione finanziaria sul regno aumenterebbe. Possono attendere con più calma i russi, il cui rublo è libero di fluttuare sui mercati del cambio, compensando le perdite derivanti dalla minore offerta. Tuttavia, attualmente esso risulta deprezzatosi troppo poco contro il dollaro, per cui un barile di Brent a Mosca frutta oggi oltre il 40% in meno di inizio anno.

O il cambio collassa, ma facendo esplodere l’inflazione, o dovranno risalire le quotazioni per evitare una crisi fiscale.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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