Donald Trump esce vincitore dalla sfida con la Cina per regolare le relazioni commerciali. Dopo anni di tensioni e un 2019 trascorso all’insegna di una vera e propria “guerra” dei dazi, il presidente americano ha siglato mercoledì scorso uno storico accordo con Pechino per sospendere la querelle. L’accordo USA-Cina prevede per questa “Fase Uno” un aumento delle importazioni cinesi di prodotti agroalimentari americani fino al controvalore di 40 miliardi di dollari all’anno. Considerando che nel 2017 le esportazioni USA del comparto verso il mercato cinese ammontarono a 24 miliardi, si tratterebbe di un aumento di 16 miliardi, pari ai due terzi.
A dire il vero, già negli ultimi mesi si sta registrando una tendenza positiva in tal senso. La cosiddetta “peste suina” ha costretto Pechino, ad esempio, ad importare dagli USA il 75% in più di carne di maiale nel corso dello scorso anno, mentre a dicembre le imprese americane hanno venduto ai clienti cinesi ben il 67% in più di soia su base annua. Questi numeri ci dicono che Trump punta a rispondere alle richieste di quel nocciolo duro del suo elettorato, che probabilmente alle prossime elezioni presidenziali di novembre lo premierà.
E l’Unione Europea? Non pervenuta, come sempre. Il comparto agroalimentare europeo esporta in Cina sui 13 miliardi di euro all’anno. L’Italia, insieme a Francia e Germania, risulta tra i principali partner di Pechino. Ora, se i cinesi acquisteranno più prodotti americani a seguito dell’accordo, evidentemente dovranno ridurre gli acquisti dagli altri mercati. E così, gli USA dovrebbero posizionarsi al 30% delle esportazioni del comparto in Cina, mentre l’Europa arretrerebbe. Non è finita, perché dopo avere raggiunto un accordo (non definitivo) con i cinesi, adesso l’amministrazione Trump volge lo sguardo al Vecchio Continente e minaccia di imporre dazi al 100% su diversi suoi prodotti agroalimentari, che spaziano dal vino alla pasta, dall’olio al caffè, passando per i biscotti.
I dazi di Trump su prosciutto e parmigiano mettono in crisi l’Italia nell’euro
Made in Italy senza tutela in UE
Capirete benissimo che siano tutti beni made in Italy, quando già oggi la nostra economia soffre per la “blacklist” USA entrata in vigore dall’ottobre scorso e a seguito della quale le nostre esportazioni a novembre sono crollate a doppia cifra sul mercato americano, quando nello stesso mese del 2018 erano aumentate sempre a doppia cifra. Insomma, il peggio dovrebbe arrivare, tra accordo USA-Cina e nuovi possibili dazi americani. E Bruxelles? Non ha alcuna strategia, se non quella di ribattere a tono alla Casa Bianca e minacciare ritorsioni a sua volta. Il punto è che a Trump non va giù che la Germania esporti così tanto, avvalendosi di una moneta sottovalutata per i suoi fondamentali.
Ora, può sembrare pretestuoso il ragionamento del tycoon – e in buona parte lo è -, ma che la politica commerciale della Commissione europea giri tutta attorno alla difesa del comparto automotive tedesco la dice lunga sulla sua capacità di rappresentanza degli interessi di tutti i 27 stati membri (Regno Unito escluso). Quale potrebbe essere la moneta di scambio, oltre all’abbassamento dei dazi europei sulle auto americane, che sono molto più alti di quelli imposti dagli USA sulle europee? Una politica fiscale tedesca più espansiva, così da stimolare le importazioni della Germania dal resto del mondo. In aggiunta o in alternativa, gli USA pretendono anche che l’euro si rafforzi. Come? Aumentando i tassi d’interesse. Su questo punto, a Berlino trovano porte spalancate, senonché sarebbero i partner europei a subirne le conseguenze, a partire proprio dalla debole economia italiana, stretta tra stagnazione del pil e debito pubblico altissimo.
Per concludere, ci andiamo raccontando da decenni che la UE serve per essere più forti e autorevoli in politica estera, ma ad ogni dossier che le si presenti, nei fatti è inesistente, lasciando senza alcuna copertura diplomatica le cancellerie meno capaci di farsi valere sul piano negoziale con terze parti.
Guerra dei dazi di Trump: prodotti italiani a rischio e l’ostacolo del falso Made in Italy