Il crollo delle quotazioni del Brent del 52% su base annua non ha lasciato indenni le economie dei paesi produttori, la cui bilancia commerciale ha subito in molti casi un forte deterioramento, essendo spesso il greggio il bene di gran lunga più esportato. Ne sa qualcosa il Venezuela di Nicolas Maduro, dove rappresenta il 96-97% dell’export complessivo. Qui, il deficit pubblico era al 17% del pil nel 2013, anno in cui il petrolio veniva venduto ancora sui 100 dollari al barile. Figuriamoci adesso, che ne vale meno della metà.
Crisi Venezuela al punto di non ritorno
Tuttavia, gli effetti di queste pressioni sono molto diversi da paese a paese, a seconda del tipo di cambio adottato. Come dicevamo, il Venezuela è un caso allarmante. L’economia è in recessione dello scorso anno, il pil cede intorno al 7% quest’anno e dovrebbe continuare ad arretrare fino al 2019, stima l’FMI. Sin dal 2003, Caracas adotta un tasso di cambio fisso tra bolivar e dollaro, oggi pari a 6,3. Sul mercato nero, però, un dollaro viene scambiato contro più di 700 bolivar. In pratica, il cambio ufficiale sarebbe sopravvalutato di oltre 110 volte e ciò crea profonde distorsioni, specie se consideriamo che il governo di Nicolas Maduro, successore di Hugo Chavez, ha ampliato il controllo amministrativo dei prezzi. Ne consegue che gli scaffali dei negozi siano vuoti per assenza di dollari con cui importare beni dall’estero, mentre la produzione è bassa, dato che ai prezzi imposti dal governo non conviene produrre alcunché. Ecco, quindi, che quel poco che si riesce a comprare lo si paga paradossalmente carissimo.
Il peso colombiano ha assorbito gli shock
Anche la Colombia produce petrolio, ma ha un cambio flessibile. Il suo peso ha perso il 35% contro il biglietto verde nell’ultimo anno, cosa che sta spingendo ai massimi da 6 anni l’inflazione. Tuttavia, il il pil dovrebbe crescere quest’anno del 3% e lo stesso bilancio pubblico non sta risentendo particolarmente di questa implosione delle quotazioni del Brent, visto che a fronte di minori dollari incassati con le esportazioni, questi valgono oggi il 34-35% in più, compensando gran parte delle perdite. E’ un discorso simile a quello che sta avvenendo in Russia dalla metà dello scorso anno.
La dollarizzazione dell’Ecuador
Il confinante Ecuador, invece, ha rinunciato da 15 anni alla sua moneta e ha introdotto il dollaro per combattere l’inflazione e la tendenza dei governi locali a stampare moneta per finanziare la spesa pubblica. Il presidente attuale Rafael Correa non è felice di questo fatto, ma la popolazione sì.
Il confronto
Se guardiamo ai dati di questi 3 paesi sudamericani, notiamo come la Colombia sia cresciuta nell’ultimo triennio sempre più di tutti e quest’anno la sua economia dovrebbe espandersi più del doppio di quella dell’Ecuador, mentre il Venezuela è il paese che ha fatto peggio, crescendo di mezzo punto percentuale 2 anni fa e arretrando successivamente. Per concludere, la crisi del petrolio ha insegnato una cosa: reggono l’urto di variazioni macroeconomiche anche repentine quelle economie, il cui tasso di cambio resta legato ai fondamentali, ovvero chi consente alla propria moneta di adeguarsi in ogni caso ai mutamenti intervenuti in un senso o nell’altro, assorbendone gli shock. Chi non lo fa, rischia di fare collassare la propria bilancia dei pagamenti e i conti pubblici, nonché di provocare una crisi economica e sociale ben più dura. APPROFONDISCI – http://www.investireoggi.it/la-crisi-valutaria-travolge-lamerica-latina-ecco-le-ragioni-del-crollo-dei-cambi/