La Banca d’Inghilterra ha ieri alzato i tassi d’interesse di un altro 0,75% al 3%. Una mossa ampiamente scontata dal mercato, sebbene le dichiarazioni dell’istituto abbiano ugualmente smosso il mondo della finanza. Le aspettative d’inflazione si sono in parte “raffreddate”, con il picco intravisto al 10,9% dal 10,1% di settembre, più basso del 13,2% stimato ad agosto. Grazie a ciò, il governatore Andrew Bailey ha avvertito di non aspettarsi tassi elevati come quelli che il mercato ha già scontato. Merito, in parte, dell’austerità fiscale di cui il governo del nuovo premier Rushi Sunak intende farsi carico per battere l’inflazione da un lato e riguadagnare la fiducia dei mercati dopo la parentesi disastrosa del governo Truss.
Londra verso la recessione
Sarà recessione, comunque. E nelle previsioni della Banca d’Inghilterra durerà per ben due anni fino al primo semestre del 2024. Già nel secondo semestre di quest’anno il PIL britannico perderebbe il 3-4%. E sulla scorta di tali scenari, ieri la sterlina si è indebolita contro il dollaro fino al 2%. Invece, i Gilt fino a 2 anni si sono apprezzati, mentre sono saliti tutti i rendimenti sopra tale scadenza.
La nuova legge di Bilancio dovrà essere presentata da Sunak entro il 17 novembre, data rinviata per consentire al nuovo governo di mettere mano ai conti pubblici. Sembra certa una nuova ondata di austerità fiscale in forma di tagli alla spesa e aumenti delle entrate. Essa contribuirà in misura determinante ad affievolire l’inflazione e agevolare la Banca d’Inghilterra nella sua opera difficile di alzare i tassi d’interesse, rendendo la stretta monetaria un po’ meno dura.
Quanto sta accadendo a Londra potrebbe anticipare le mosse di politica economica nel resto d’Europa. Sembra anche in linea con la richiesta del Fondo Monetario Internazionale ai governi di evitare aiuti a pioggia a famiglie e imprese contro il caro bollette, invitandoli a concentrare le risorse sulle fasce più sofferenti della popolazione.
Austerità antidoto contro tassi super
L’austerità deprimerà la domanda interna e, quindi, la corsa dei prezzi al consumo. Ciò permetterà alle banche centrali di alzare i tassi a livelli un po’ meno alti. Per quale motivo sarebbe un’opzione preferibile? Se la lotta all’inflazione passasse solamente dalla politica monetaria e la politica fiscale magari remasse persino contro con aiuti a pioggia, la stretta sui tassi diverrebbe dura. E la liquidità sui mercati si prosciugherebbe, a discapito principalmente dei soggetti debitori percepiti più a rischio come l’Italia. Si correrebbe il pericolo di scatenare una crisi finanziaria dall’impatto disastroso sulle economie nazionali.
Un mix tra stretta monetaria e austerità fiscale garantirebbe la fiducia dei mercati rispetto alle emissioni di debito. I costi di emissione rimarrebbero sostenibili e la recessione economica esiterebbe un risultato meno grave dello scenario precedente descritto. Ma una cosa sono le ipotesi, un’altra la realtà. Può benissimo accadere che il ripiegamento del PIL faccia scappare gli investitori da aziende e stati finanziariamente deboli. Il fatto è che ciò accadrebbe ugualmente con una lotta all’inflazione tutta per via di tassi in aumento.
Ciò spiega anche perché il dollaro dopo il board della Federal Reserve di mercoledì si sia ulteriormente rafforzato contro le altre valute mondiali. Gli USA sembrano al momento gli unici attrezzati ad alzare i tassi fino a livelli alti (oltre il 5%), mentre incombe il rischio di una recessione globale. Tutti fattori che spingono i capitali in fuga verso gli States.