Pochi giorni fa, il presidente Nicolas Maduro ha alzato il salario minimo nel Venezuela del 20% a 250.000 bolivar al mese per la terza volta quest’anno. Al cambio fisso di 1:10, ancora utilizzato solo in via residuale per le importazioni alimentari e di farmaci, sarebbero una cifra astronomica di 25.000 dollari, ma prendendo come riferimento il cambio vigente oggi sul mercato nero, fanno appena 32,50 dollari al mese. L’inflazione accelera e quest’anno potrebbe attestarsi a 4 cifre, colpendo il potere di acquisto delle famiglie, la metà delle quali vivrebbe in povertà assoluta e un terzo appena riuscirebbe a mangiare due volte al giorno.
I prezzi salgono e quasi nessuno riesce a tenere loro testa, tanto che il Washington Post ci offre una testimonianza drammatica di una donna venezuelana, tale Ana Margarita Rangel, che spiega di non potersi più permettere nemmeno di lavarsi i denti un paio di volte al giorno, dovendo spesso rinunciare a farlo la sera, prima di andare a dormire. La ragione è presto spiegata: il dentifricio costa mediamente la metà dello stipendio settimanale di un lavoratore, per cui comprarlo significa sostanzialmente rinunciare a mangiare. (Leggi anche: Crisi Venezuela: 10 numeri della tragedia umanitaria sotto Maduro)
Lo stesso Centro per la Documentazione e l’Analisi per i Lavoratori conferma il dramma, trovando che il salario minimo sarebbe in grado di acquistare appena un quarto del paniere alimentare mensile di cui avrebbe bisogno mediamente una famiglia di 5 componenti. Ancora più paradossale è il fatto che, ammesso che si percepisca uno stipendio in grado di acquistare l’indispensabile, a poco potrebbe servire, visto che nel paese manca praticamente di tutto, essendo attraversato da una carenza diffusa e quasi totale di beni primari e di farmaci, che costringe da un paio di anni i venezuelani a lunghe ore di file davanti ai supermercati per poi entrare e trovare gli scaffali vuoti.
PDVSA cerca di evitare il default
Le riserve valutarie del paese non bastano nemmeno a consentire il minimo possibile di importazioni dall’estero, tanto che è notizia di pochi minuti fa che la compagnia petrolifera statale PDVSA potrebbe rinegoziare a ottobre il pagamento in scadenza di un bond, a causa dei bassi prezzi del greggio. Lo ha dichiarato il responsabile per la programmazione della società, Hector Andrade, il quale chiarisce che vi sarebbero “elevate probabilità” che ciò accada. Uno schema simile, ovvero uno swap con obbligazioni a più lunga scadenza di nuova emissione, è stato applicato nell’autunno scorso, evitando il default formale. Il ripetersi di tali stratagemmi segnalerebbe la crisi sempre più drammatica delle riserve, non essendo più il governo di Caracas in grado di attingervi per onorare le scadenze.
Tutto questo, mentre nel paese si avvicina a quota 100 il bilancio dei morti negli scontri di piazza dall’inizio di aprile ad oggi, dopo che le opposizioni hanno indetto “la madre di tutte le proteste” contro il brutale regime chavista di Maduro, che nel giro di un triennio ha fatto crollare il pil di un terzo e che ha portato l’economia letteralmente alla fame. Il ripiegamento recente delle quotazioni del petrolio sui 45 dollari non fa ben sperare, visto che la materia prima è l’unica che il paese esporti. PDVSA ha anche annunciato che investirà 50 miliardi in 7 anni per aumentare le estrazioni di 1 milione di barili al giorno dai 2 attuali, ma non si capisce da dove potrebbe mai prendere il denaro occorrente, non essendo già oggi in grado nemmeno di consegnare il greggio ai clienti per mancanza di dollari per il trasporto. (Leggi anche: Crisi umanitaria in Venezuela, niente cibo e farmaci)