Il possibile nuovo ministro del Lavoro sarebbe Marina Calderone, sarda e presidente del Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro. Considerata molto vicina a Giorgia Meloni, si ritroverà in mano subito due dossier scottanti: la riforma del reddito di cittadinanza e la riforma delle pensioni. La seconda dovrà arrivare in tempo per impedire che dall’1 gennaio prossimo resti in vigore solamente la legge Fornero. Entro fine anni, infatti, scadono Opzione Donna, Ape Social e Quota 102. Tra le ipotesi che circolano negli ambienti della nuova maggioranza c’è stata nei giorni scorsi quella di introdurre Opzione Uomo, vale a dire di estendere ai lavoratori maschi una previsione già esistente per le lavoratrici.
Anzitutto, cos’è Opzione Donna? La possibilità per le lavoratrici di andare in pensione con almeno 58 anni di età e 35 anni di contributi. Per le autonome, servono almeno 59 anni di età. Tuttavia, in questo caso l’assegno è liquidato in toto con il metodo contributivo. Questo significa che si percepisce quanto versato. Una perdita anche notevole per le pensionate. Nel caso di Opzione Uomo, si stima che arriverebbe al 31% dell’assegno. Si andrebbe in pensione con fino al 50% dell’ultimo stipendio.
Salvini caldeggia Quota 41
Opzione Uomo non piace alla CGIL di Maurizio Landini, perché consentirebbe di andare in pensione in anticipo prendendo di meno. Sarebbe una soluzione iniqua dal punto di vista del sindacato, perché in questo modo solo i lavoratori con stipendi elevati o entrate secondarie saranno in grado di accettare un assegno così tanto decurtato. Favorevole il presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, il quale rileva che questa strada sarebbe sostanzialmente la stessa intrapresa dal governo uscente, cioè tesa a legare la flessibilità in uscita dal lavoro al contributivo. In questo modo, il sistema previdenziale resterebbe sostenibile nel lungo periodo.
Opzione Uomo sarebbe verosimilmente introdotta con criteri più stringenti di Opzione Donna. In particolare, servirebbero almeno 60-62 anni per andare in pensione. Tuttavia, si fa largo anche l’ipotesi di puntare su Quota 41, che è la proposta sbandierata da tempo dalla Lega di Matteo Salvini. Essa consiste nel consentire ai lavoratori di andare in pensione con almeno 41 anni di contributi, quale che sia l’età anagrafica. Tuttavia, costerebbe non meno di 5 miliardi di euro all’anno. E non è aria. Anche perché già le pensioni nel 2025 ci costeranno il 17,6% del PIL, per cui la Commissione europea vorrebbe vedere piani per abbassare tale percentuale, non certo per innalzarla.
Attenzione ai conti INPS
Ed ecco che Quota 41 sarebbe accompagnata dalla previsione di un’età anagrafica minima, che ambienti vicini alla premier “in pectore” fisserebbero in almeno 60-62 anni. Il punto è che diventerebbe una sorta di Quota 101-102. C’è il rischio che mercati ed Europa la percepiscano come una sorta di allentamento delle regole previdenziali in vigore. A quel punto, meglio estendere a tutti la previsione già esistente per cui si può andare in pensione a 64 anni, se ricadenti nel regime totalmente contributivo, in possesso di almeno 20 anni di contributi e se l’assegno così determinato risulti essere non inferiore a 2,8 volte il trattamento minimo.
Si potrebbe, ad esempio, abbassare l’età anagrafica minima per l’accesso a 62-63 anni, consentire l’accesso a tutti i lavoratori, magari innalzando gli anni di contribuzione necessari e accettando che l’importo minimo dell’assegno sia di poco superiore al trattamento minimo. L’unica soluzione da escludersi sarebbe di fare pasticci con Quota 41 in stile Liz Truss. La flessibilità serve, ma affiancata dalla sostenibilità dei conti INPS. Solo legandola al metodo di calcolo contributivo risulterebbe possibile soddisfare entrambe le esigenze nel lungo periodo.