Le incognite dei mercati di fronte al protezionismo di Trump

Protezionismo, guerra dei dazi Usa-Europa e le possibili conseguenze per i mercati finanziari. Il commento degli analisti di Hermes
7 anni fa
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I mercati fino a oggi hanno ignorato quella che può essere considerata la nuvola più scura che si sta profilando. Piuttosto che la sfiducia finanziaria, è probabile che gli investitori dovranno affrontare le ripercussioni di una sfiducia politica, causata dalle politiche protezionistiche e dall’aumento del populismo europeo.

Il 2018 sarà un anno a due facce per i mercati – osserva Neil Williams, ChiefEconomist di Hermes Investment Management . Da una parte quella dell’euforia, generata dagli stimoli, dall’altra quella del timore, generato dal pericolo della stagflazione.

Il compromesso, a mio avviso, potrebbe essere quello di mantenere i tassi politici a un livello inferiore di quello che invece molti si aspettano. L’impatto del protezionismo americano potrebbe essere più complicato rispetto a quello degli anni 30. I dati economici e finanziari evidenziano che l’effetto moltiplicatore di questa politica potrebbe essere più ampio e, a livello globale, la ritorsione potrebbe attivare effetti secondari che potranno penalizzare gli impulsi alla crescita innestati dagli stimoli fiscali di Trump.

 

In secondo luogo, il ritorno deflazionistico negli Stati Uniti potrebbe essere molto più grande del previsto. L’impegno della Cina nei confronti dei titoli di stato americani sarebbe messo in discussione, la filiera delle aziende americane interrotta, la già ridotta offerta di manodopera e la crescita potenziale degli Stati Uniti si ridurrebbe ulteriormente. Terzo, se il protezionismo dovesse essere attuato, l’inflazione ricomparirà. Ma, con la possibile eccezione degli Stati Uniti, sarà la tipologia sbagliata, guidata dai costi piuttosto che dalla domanda. Le banche centrali chiuderanno un occhio alla stagflazione delle economie in modo tale che la fiamma inflazionista possa spegnersi.

 

La riforma fiscale di Trump

 

Riguardo gli Stati Uniti – dice Williams – gli effetti degli stimoli fiscali proposti inizialmente da Trump si sono fatti sempre più affievoliti a causa della minaccia del diffuso protezionismo e del possibile rafforzamento del dollaro determinato dal rimpatrio.

E’ per questo che il mandato di Trump può essere considerato a un bivio. Anche se alcune proposte in termini fiscali e di immigrazione sembrano estreme, Trump ha ancora il tempo di diluirle al fine di ottenere l’approvazione di un Congresso che appare relativamente più conservatore. Tuttavia, pur essendo limitata la sua capacità di imporre misure fiscali “jolly”, il Congresso potrebbe non essere in grado di precludere le sue posizioni commerciali protezionistiche. In tal caso, la nuova volatilità può rendere più confuso il percorso dei tassi statunitensi. L’attuale situazione non giustifica ancora una Fed aggressiva, rendendo irrealistico il raggiungimento del picco del 3% previsto dal FOMC.

 

Il debito pubblico USA

 

Il primo importante test a livello macro per Trump sarà quello di alzare il tetto del debito di 18 trilioni di dollari, che fissa il livello teorico del tetto al finanziamento del Governo. Ciò è centrale per consentirgli di procedere ai suoi impegni di taglio fiscale. Se Trump non riuscirà a gestire in modo efficace questa situazione, la minaccia della caduta del Governo, di pagamenti inevasi e del rischio di inadempienza rischierebbe di penalizzare i mercati che, prima delle elezioni, scommettevano su una recessione entro la prima metà del 2018.

Il “default” è probabile solo attraverso l’inflazione e il mercato azionario potrebbe risentirne, come accadde nell’agosto del 2011 quando si verificò la crisi del debito sovrano USA. Certo – prosegue Williams – con la crescita del PIL che ha registrato un buon andamento (circa il 2% su base annuale) e il PIL reale che è tornato al livello pre-crisi del 13%, le prospettive a breve termine rimangono costruttive. Trump sostiene tagli generalizzati alle imposte sulle persone fisiche e sulle società, redditi più elevati, aumento della spesa per infrastrutture, riduzione dell’immigrazione e maggiori dazi per il commercio internazionale.

Ciò però comporta letteralmente un colpo al gettito fisale di circa 4,2 trilioni di dollari (22% del PIL), solo in parte finanziati da tagli alla spesa. E il Congresso potrebbe fare un passo indietro su questo punto.

 

I dazi doganali di Trump

 

Può anche opporre le sue tariffe aggressive del 45% e 35% su Cina e Messico e rivedere il NAFTA. Tuttavia, Trump potrebbe ancora invocare il “Super 301” (Sezione 301 del TradeAct del 1974) per imporre – senza l’approvazione da parte del Congresso o della World Trade Organization – dazi ai paesi che ritiene adottino pratiche commerciali “sleali”. In tal caso, ci si attende una maggiore collaborazione commerciale con altri paesi (ad esempio i mercati emergenti) le cui importazioni “più economiche” colmeranno il divario. A questo – dice Williams – potrebbe seguire una reazione globale, con un ritorno di un flusso deflazionistico negli Stati Uniti più forte del previsto. Quindi, dopo la spinta iniziale, la crescita degli Stati Uniti potrebbe rallentare ancora una volta, offrendo una base più debole a un’economia potenzialmente in grado di far fronte a una correzione dei prezzi degli attivi. Le minacce del Presidente Trump potrebbero anche varcare i confini con il Messico e il numero di rimpatri degli immigrati senza documenti (11,3 milioni in due tranche) accelererebbe, se non compensata, la contrazione dell’offerta di manodopera. Questa risulta pari al 7% della forza lavoro, ossia da tre a quattro volte il dato massimo raggiunto ogni anno dal presidente Obama. Ciò mette a rischio quello che è l’elemento principale dell’espansione commerciale degli Stati Uniti (definita dal RECN) di questi otto anni: una maggiore crescita potenziale.

 

Pil USA rivisto in crescita al 1,5%

 

L’ OCSE prevede che nel 2018 la crescita potenziale degli Stati Uniti sarà solo dell’1½ %, ossia inferiore all’attuale tasso di crescita. Le “colombe” del FOMC, come Brainard, sostengono che la sovraccapacità giustifica un tasso di politica “neutrale” molto più basso rispetto ai recuperi passati. È incoraggiante, tuttavia, il fatto che negli Stati Uniti la presenza di alcuni incrementi di produttività (+10% dalla crisi) hanno aiutato i salari medi a superare (+22%) l’inflazione (+15%).

In confronto, la produttività più bassa del Regno Unito ha ostacolato la crescita salariale (15%), rispetto all’ indice dei prezzi al consumo (+27%).

Parte di questo puzzle è ancora legata a tendenze disparate nei tassi di partecipazione dei lavoratori. Il calo della disoccupazione negli Stati Uniti è stato diffuso, ma il bacino di lavoro si sta riducendo (grafico 4). Questo sta mantenendo il tasso di partecipazione dei lavoratori vicino a un minimo di 36 anni, contribuendo alle difficoltà di assunzione e alla carenza di competenze in un momento in cui la disoccupazione, pari al 4,8%, si colloca facilmente sotto la fascia 5¼ – 5½ % NAIRU del FOMC. Ciò è in contrasto con il costante aumento della forza lavoro nel Regno Unito, nella zona euro e in Australia. Un ulteriore taglio al bacino di lavoro potrebbe stimolare i salari. Tuttavia, il colpo che il protezionismo genera per i consumatori e le imprese a causa dell’inflazione che spinge i costi suggerisce che qualsiasi aumento della domanda a causa dell’aumento dei salari e di un maggiore isolamento negli Stati Uniti potrebbe avere una vita breve. In questo caso -conclude Williams – il FOMC potrebbe essere più riluttante ad aumentare i tassi di interesse rispetto ai mercati. In caso contrario, l’espansione di otto anni degli Stati Uniti – il terzo periodo più lungo – potrebbe non essere più la più lunga mai realizzata già nell’estate 2019.

Mirco Galbusera

Laureato in Scienze Politiche è giornalista dal 1998 e si occupa prevalentemente di tematiche economiche, finanziarie, sociali

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