Sale a quasi 100 il numero dei morti a seguito delle proteste in Iran contro la morte di Mahsa Amini. La giovane di 22 anni fu fermata a metà settembre dalla polizia religiosa per avere indossato il velo in modo sbagliato. Dopo diversi giorni in custodia, è morta per le probabili torture ricevute. Al grido di “Azadi, azadi, azadi”, cioè “libertà” in lingua farsi, migliaia di studenti hanno inscenato una manifestazione contro il regime persino dentro le mura della prestigiosa Università di Tecnologia Sharif a Teheran.
Le proteste in Iran stanno già avendo ripercussioni economiche non solo per il paese mediorientale. Il tasso di cambio contro il dollaro sul mercato nero è precipitato ai nuovi minimi storici di 331.800 rial questo lunedì. Ricordiamo che il cambio ufficiale è fisso a 42.300 rial. Nel 2015, quando Teheran firmò il trattato sul nucleare con le principali potenze della Terra, tra cui gli USA, il cambio era ancora di 32.000 rial per un dollaro.
L’amministrazione Trump si ritirò da quell’accordo nel 2018. Ciò decretò la riattivazione delle sanzioni contro il paese, tra cui il divieto di esportare petrolio. Ebbene, non è un caso che nelle ultime sedute il prezzo di un barile di Brent sia tornato sui 90 dollari. E ciò, al netto della riunione dell’OPEC di ieri. Le proteste in Iran, infatti, allontanano il raggiungimento di un nuovo accordo con l’amministrazione Biden. Basta ascoltare le dichiarazioni del presidente americano contro le violenze scatenate dal regime.
Proteste in Iran allontanano accordo sul nucleare
L’Iran produce poco più di 2,5 milioni di barili al giorno e ne esporta la media di quasi 900.000. Prima dell’embargo, ne esportava almeno 1,5 milioni di barili. Mancherebbero all’appello sul mercato petrolifero mondiale non meno di 600.000 barili al giorno, che farebbero comodo in una fase di alti prezzi come questa.
L’economia iraniana è stata profondamente colpita dall’embargo. La crisi valutaria è dovuta proprio al tonfo delle esportazioni e alla fuga dei capitali. Lo stesso dicasi per l’inflazione, ormai sopra il 50%. Era sotto il 10% prima che l’ex presidente Donald Trump annunciasse il ritiro dall’accordo sul nucleare. Nel paese c’è molto malcontento proprio per le pessime condizioni dell’economia, unitamente alla scarsa libertà concessa dal regime alla popolazione e ai pochi diritti riconosciuti alle donne.
D’altra parte, la mancata sottoscrizione dell’accordo tra USA e Iran spingerebbe l’Arabia Saudita, arci-nemico della Repubblica Islamica, a posizioni più morbide sul mercato del petrolio. Il principe Mohammed bin Salman potrebbe finanche acconsentire a un futuro aumento della produzione per mitigare i prezzi internazionali e rispondere così ai numerosi appelli lanciati dall’amministrazione Biden in tal senso, negli ultimi mesi.