C’è tensione nel Kazakistan, principale economia dell’Asia Centrale. Il governo si è dimesso in settimana e il premier Askar Mamin è stato rimpiazzato dal vice Alikhan Smailov per ordine del presidente Kassym-Jomart Tokajev. La decisione è arrivata al termine di violente proteste divampate nella città di Zhanaozen e spintesi fino alla capitale Almaty contro il caro benzina. Il prezzo del carburante era stato raddoppiato dall’esecutivo da un giorno all’altro, spingendo allo sconforto migliaia di manifestanti. La misura è stata successivamente ritirata.
Il Kazakistan conta quasi 19 milioni di abitanti e un PIL di circa 170 miliardi di dollari. Per Mosca è stato un fido alleato dopo l’indipendenza ottenuta nel 1991. Per quasi 30 anni a guidarlo c’è stato il presidente e padre della nazione, Nursultan Nazarbaev. Il paese è diventato un “hub” energetico per Cina ed Europa. Produce la media di 1,7 milioni di barili al giorno di petrolio (1,8% dell’offerta mondiale), per la gran parte esportati. Le sue riserve sono stimate in 30 miliardi di barili, l’1,8% del totale mondiale sinora accertate. E dispone anche dello 0,6% delle riserve di gas naturale al mondo.
Le esportazioni avvengono principalmente tramite il pipeline attraverso il Mar Nero. Malgrado la vicinanza geopolitica a Mosca, i primi investitori nel comparto energetico kazako sono americani. Le proteste contro il caro benzina rischiano di destabilizzare un paese molto ordinato e cruciale per il Cremlino, il quale ha emesso una nota per chiedere a Tokajev di normalizzare la situazione andando incontro alle “legittime richieste” dei manifestanti. Sono due le fonti di preoccupazione per Vladimir Putin. In primis, che con un’inflazione russa a dicembre all’8,4%, le proteste possano diventare contagiose contro il carovita.
La geopolitica dietro le proteste per il caro benzina
Ma il vero cruccio di Mosca è di altra natura. C’è il sospetto, esplicitamente denunciato da Tokajev, che dietro alle proteste vi sia la mano di qualche potenza straniera, cioè degli USA di Joe Biden.
Le tensioni ad Almaty rischiano di accentuare l’impennata dei prezzi energetici. Il petrolio si è riportato in settimana a 80 dollari al barile, mentre il gas ha ripreso a salire in Europa. Indispettito per l’evento, Putin potrebbe usare l’arma di ricatto del gas per indurre i governi del Vecchio Continente a più miti consigli in pieno inverno e nel bel mezzo di una devastante crisi energetica. Essi premerebbero così su Washington per dissuaderla dall’intraprendere uno scontro frontale con Mosca, magari gettando benzina sul fuoco negli stati-satellite come il Kazakistan. La partita è complessa e, soprattutto, lunga. A noi europei serve almeno superare l’inverno per non battere i dento dal freddo e compromettere la ripresa economica dopo la pandemia.