L’aggiornamento delle previsioni di Mazziero Research sull’economia italiana per quest’anno sono agghiaccianti: nel primo trimestre, il pil collasserebbe del 6-8% e nell’intero 2020 si otterrebbe un -2,5/-3%. La nostra ipotesi di alcune settimane fa, ovvero che l’Italia rischi di accusare una recessione simile a quella vissuta nell’era Monti (2012-’13), non solo si sta rivelando veritiera, ma forse risulta persino ottimistica. Il collasso è dovuto a quanto sta avvenendo nel nord produttivo, in quei distretti del lombardo-veneto e, in parte, dell’Emilia colpiti dal Coronavirus, in cui complessivamente si genera circa il 30% della ricchezza domestica generale.
Pil Italia primo trimestre 2020, crisi paurosa emerge dalle stime di Mazziero
Il contraccolpo sta già provocando un crollo verticale delle prenotazioni alberghiere e degli arrivi di turisti stranieri, così come minori spostamenti all’interno del territorio nazionale, oltre che l’annullamento di ogni tipo di manifestazione pubblica. Insomma, l’Italia si è parzialmente spenta e non è detto che il peggio non arrivi nelle prossime settimane, qualora il famoso “plateau” del virus non venisse raggiunto a breve, cioè se i contagi continuassero ad accelerare di giorno in giorno, anziché frenare, come tutti auspichiamo.
Il crollo del pil italiano significa automaticamente peggioramento del rapporto debito/pil, che già nel 2019 superava il 135%. Ma esso genera a sua volta minori entrate fiscali, al netto del calo dei versamenti nelle aree colpite e rinviati a seguito delle disposizioni del governo. Non solo. Per affrontare l’emergenza, servono più soldi per sostenere la sanità nelle regioni in cui altrimenti rischierebbe il collasso per la saturazione dei reparti di terapia intensiva, così come per dare una mano a imprese e famiglie. E non stiamo parlando dei 7,5 miliardi di euro già stanziati dall’esecutivo, noccioline rispetto al conto reale di questa epidemia. In definitiva, più spesa, meno entrate e aumento del rapporto debito/pil, destinato probabilmente a salire sopra il 140% entro quest’anno.
Economia italiana senza sostegno
E la cattiva notizia non sarebbe nemmeno quella, quanto l’assenza di una qualche forma di sostegno possibile per la nostra economia. L’Italia non dispone di margini fiscali per poter avviare un programma di investimenti infrastrutturali necessari per rilanciare il tasso di crescita nel medio-lungo periodo, né per tagliare le tasse senza adeguate e integrali coperture finanziarie. Al contempo, non può confidare più di tanto sulle esportazioni, essendosi deteriorato proprio il contesto internazionale. Dunque, consumi interni deboli e in peggioramento e nessun toccasana in arrivo dall’estero.
A questo, aggiungiamo che la sfera monetaria ha già dato. La BCE ha azzerato i tassi da anni, ha riattivato il “quantitative easing” dal novembre scorso e certamente s’inventerà qualcos’altro per reagire alle intemperie, ma non tanto di più di quanto non abbia già fatto. Grazie a questa politica, malgrado un debito pubblico record, stiamo riuscendo a rifinanziarci sui mercati a interessi infimi e solo ciò lo rende sostenibile. Ma cosa accadrebbe se non perdessimo l’accesso ai mercati, non riuscendo più a trovare adeguata domanda per i nostri BTp? Con ogni probabilità, agirebbe per prima la BCE nelle more di un intervento del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), magari aumentando considerevolmente e temporaneamente la quota di bond da acquistare destinata all’Italia.
Ma quando busseremmo alla porta del MES, questi ci offrirebbe aiuto condizionatamente alla sottoscrizione di un memorandum d’intesa sulle riforme da un lato e – stando a quanto emerso in questi mesi di dibattito sull’ente – dietro il previo riconoscimento del nostro debito pubblico come “sostenibile”. E uno stock di questa entità, con una crescita economica così nulla da anni, non verrebbe considerato tale. Quindi, scatterebbe la richiesta di ristrutturazione dei BTp, tra allungamento delle scadenze e taglio nominale dei titoli, similmente a quanto accaduto con la Grecia nel 2012.
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Cresce il rischio Italexit
E proprio l’esempio ellenico suggerisce di restare cauti su una simile misura. Ancora oggi, l’economia di Atene si rivela di quasi un quarto più piccola di quella pre-crisi. Sappiamo quanti danni abbia provocato il disastro finanziario ed economico del decennio passato al popolo greco. Davvero immaginiamo che la terza economia dell’Unione Europea possa ridursi a una Magna Grecia? Troppo alto il rischio che una depressione italica faccia saltare le istituzioni comunitarie e l’intera Eurozona. Poiché il debito pubblico è per oltre due terzi in mano a banche, assicurazioni, fondi e famiglie della stessa Italia, la ristrutturazione equivarrebbe obiettivamente a decimare i risparmi interni, ovvero ad aggravare la crisi stessa.
E se la soluzione estrema che al MES trovassero per risolvere l’annosa questione del debito italiano fosse di farci uscire temporaneamente dall’euro, così che la svalutazione che ne conseguirebbe ci rendesse all’impatto più competitivi? Una “Italexit” pro tempore e controllata, con l’obiettivo di un ritorno nell’Eurozona in condizioni fiscali risanate ed economiche più accettabili. Sarebbero grossi dolori, non illudiamoci, e compiuto il passo fatale verso l’uscita, appare poco probabile che ne faremmo un altro per tornare nell’euro. Ma lo spettro di un ritorno alla lira “per incidente” si fa più concreto, anche perché la politica italiana non si mostra né intenta, né capace di richiedere ai cittadini ulteriori sacrifici dopo un decennio trascorso a stringere la cinghia e a stangare fino all’inverosimile.
Il Coronavirus sarebbe solo l’ultima di una serie di piaghe ad essersi abbattuta sul nostro Paese negli ultimi anni. L’assenza di crescita è un fenomeno ormai preoccupante da almeno un quarto di secolo, a sua volta madre e figlia di tutte le sciagure fiscali.
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