L’Istat ha certificato ieri che la produzione industriale in Italia è scesa dell’1,3% nel 2019, segnando un -2,7% mensile a dicembre, il calo più marcato da gennaio 2018. Combinando questi dati con quelli sugli ordini industriali, difficile immaginare che agli inizi di quest’anno si stia registrando una ripresa del pil dal -0,3% stimato provvisoriamente per l’ultimo trimestre del 2019. Se così non fosse, l’economia italiana si starebbe dirigendo verso la quarta recessione dal 2008. Dire che sia un dato negativo è eufemistico.
Economia italiana a rischio recessione e a Roma parlano di aumentare l’IVA
Il nostro pil reale è l’unico tra le grandi economie mondiali a non essersi ripreso dalla crisi di ormai 12 anni fa. Esso rimane di oltre il 4% inferiore rispetto ai livelli del 2007. Nello stesso periodo di tempo, Germania e Francia sono cresciuti a doppia cifra. E che dire del pil pro-capite, quello che si ottiene suddividendo la ricchezza annualmente prodotta per il numero dei residenti? Con il nuovo millennio risulta aumentato nominalmente di quasi il 42%, ma si consideri che l’inflazione cumulata nel ventennio è stata di circa il 41%. In altri termini, dal 2000 ad oggi i redditi degli italiani mediamente sono rimasti del tutto fermi.
Ed è chiaro che sia così. Tornando alla produzione industriale, i livelli a fine 2019 risultavano di quasi il 22% più bassi di quelli del 2007. Negli ultimi 12 anni, le variazioni tendenziali sono state negative per 6 volte, nulle una volta e positive per sole 5 volte. Queste sono cifre di uno stato depressivo, non di una congiuntura avversa. Impossibile su queste basi anche solo sperare di abbattere il rapporto debito/pil. Il denominatore non cresce, ormai nemmeno in termini nominali, essendo l’inflazione quasi azzerata.
Le cause della depressione italiana
E dire che a tenere bassissimi i rendimenti dei titoli di stato ci stia pensando la BCE negli ultimi anni. Senza, avremmo oggi un deficit superiore al 3% e, soprattutto, perso del tutto la fiducia dei mercati finanziari. Non saremmo più da tempo nelle condizioni di rifinanziare da soli il debito in scadenza. La domanda è perché l’economia italiana non cresce più da decenni. La risposta va trovata nel mix micidiale di alte tasse, burocrazia gravosa, bassi investimenti e giustizia lenta, unitamente alla scarsa propensione degli investitori a portare i loro capitali in un paese politicamente e legislativamente instabile come il nostro.
Serve uno shock fiscale per riattivare la domanda aggregata interna da un lato e la produzione dall’altro, ma esso è impossibile da attuarsi, a causa dei margini inesistenti dei conti pubblici. Soltanto un’azione lungimirante di abbattimento della spesa pubblica nel medio-lungo periodo renderebbe possibile raccogliere negli anni i frutti, con la creazione progressiva di quegli spazi fiscali da utilizzare per tagliare le tasse e aumentare gli investimenti pubblici. Ma le varie operazioni di “spending review” varate dal 2012 in poi non hanno esitato alcunché di significativo. L’instabilità politica e la breve durata dei governi stanano sul nascere qualsivoglia tentativo di adottare azioni lungimiranti e rendono la nostra legislazione incoerente ed erratica.
Tutti i mali storici dell’Italia sono venuti maledettamente a galla con l’euro, non essendovi più le valvole di sfogo della svalutazione del cambio e del deficit spending, con ripercussioni inflazionistiche in entrambi i casi. Se nella Prima Repubblica fu possibile per i governi vivacchiare, scaricando sul futuro le conseguenze delle non scelte, adesso quel futuro è arrivato da un pezzo e contrariamente a quanto avremmo sperato, ci ha colti impreparati e sprovvisti di una governance credibile per uno dei membri del G7.
La corsa sfrenata del debito pubblico italiano con queste cifre allarmanti